Ma c’è poco tempo, ho fretta di tornare, dopo la messa di stamattina (era solo stamattina?) nel luogo in cui l’angelo ha annunciato a Maria che avrebbe concepito il figlio di Dio; vado, come mi scrive la mia amica Giuli (non rispondo agli sms sennò vado sul lastrico, ma li ricevo gratis) “all’origine di quell’avvenimento che ci ha presi così come siamo, gratuitamente. E chi lo incontra davvero non ha più paura di perdere niente… Lui ci fa essere più noi stessi di chiunque altro”.
La casa in cui abitava quella sedicenne “
presa da grande turbamento” (e ti credo) è protetta da una grata, ma stranamente non è presa d’assalto dalla gente. C’è silenzio, anche grazie alla vigilanza dei volontari che la custodiscono, e c’è modo di stare davvero raccolti. Per qualche momento anche in intimità con la Madonna, per poter presentare tutte le persone bisognose di una sua carezza che si sono raccomandate a me. Andando rileggo Isaia, quel passo in cui Acaz dice di non voler chiedere al Signore un segno, per non tentarlo. E Isaia risponde: “Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio.” E mentre leggo penso che a volte anche noi non osiamo chiedere abbastanza, siamo un po’ troppo educati con Dio, mentre a volte bisogna anche arrabbiarsi con lui (lo ha detto il Papa, peraltro…). In realtà è che noi in fondo in fondo pensiamo di non meritare niente, e sarebbe anche vero, se non fosse che i regali Dio non ce li fa per meriti ma perché ci vuole bene e basta.
Lì vicino c’è anche la chiesa di San Giuseppe, dove Gesù ha vissuto da bambino, e dove era il laboratorio del falegname, del modello di vero uomo. Accarezzo la pietra sulla quale è scritto che lì, in quel luogo, Gesù per molti anni è stato sottomesso ai suoi genitori, e penso a come la famiglia sia la via della salvezza in questa reciproca sottomissione, in questo obbedirsi, in questo lavorare sui propri spigoli, su di sé (avete capito ragazzi? Smettete di spernacchiare la vostra “figura materna”, come mi chiamate).
Andando a Cana mi imbatto, in attesa del pulmino, in un negozio kitschissimo, e scommetto con me stessa che io riuscirei a fare shopping anche lì. Ma è troppo facile, perché io sono kitsch dentro, e così compro una camicia talmente brutta che scollina, fa il giro e diventa non dico bella, ma quasi guardabile. Uno pensa che tutto quel tripudio di pizzi e sbuffi sia ironico. Le mie amiche di classe mi ripudieranno, ma è una questione di principio. Una vera donna deve trovare qualcosa da comprare ovunque. E poi basta non dire che l’ho pagata 29 euro a Nazareth, ma 290 a Biarritz.
A Cana prego per tutte le coppie sposate o da sposare che conosco, e per motivi libreschi ormai ne conosco una vagonata. Prego per quelli a cui sembra che sia finito il vino, prego perché Maria ogni volta per ognuno di loro convinca Gesù a fare di nuovo il miracolo di una vita capace di intrecciarsi con la vita di un altro, il miracolo del coraggio di non strapparsi via da quell’altra carne che è ormai parte della nostra, anche quando sembra divenuta estranea. Non lo è. Noi possiamo esserci sbagliati, ma Dio no.
Il nostro pulmino ci porta adesso sotto il livello del mare, sul lago di Tiberiade. Lo vediamo solamente, domani lo visiteremo. Per il momento abbiamo solo preso posto in albergo, e lottato per due ore per cercare la linea wi-fi. Sto con la finestra aperta, magari il vento mi porta qualche onda elettromagnetica in più e riesco a mandare questo post. Niente onde, ma a un certo punto dalla finestra entra un piccione. Per un momento mi viene il dubbio che sia della specie viaggiatore, mandato da admin a ritirare fisicamente il post. Che poi secondo me quello rimarrebbe sempre il metodo più sicuro.
La serata finisce vicino al kibbutz Ginnosar, sempre zona mar di Galilea: siamo ospiti di un ristorante che si chiama Ktsy Hanahal, e non posso dire
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