State buoni , Se potete - San Filippo Neri ...

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State buoni , Se potete - San Filippo Neri ... Tutto il resto è vanità. "VANITA' DELLE VANITA '> Branduardi nel fim - interpreta Spiridione. (State buoni se potete è un film italiano del 1983, diretto da Luigi Magni, con Johnny Dorelli e Philippe Leroy).

sabato 31 maggio 2014

...la ricerca della libertà

Celibato e amore di coppia...

Ordinazione sacerdotale

...la ricerca della libertà


Interrogativi dopo la lettera delle 26 donne che amano i preti e la confessione di un ex-sacerdote ora sposato

MARIA TERESA PONTARA PEDERIVA ROMA
“Sono stato sacerdote per 17 anni, dai 24 ai 41 anni, dal 1982 al 1999. E mi è sempre piaciuto fare il prete, l’ho sentito come il senso più profondo della mia vita: ho cercato di vivere con radicalità quella scelta. A un certo punto, la vita mi ha presentato il conto. Il ‘problema affettivo’ mi è scoppiato fra le mani”. Inizia così il racconto di una vita da ex-prete, ora sposato, pubblicata sulla cronaca di Milano di Repubblica. Fiorenzo De Molli, milanese, traccia le coordinate di una “vita affettiva non in sintonia con la vita sacerdotale”, con una scelta di celibato, non pienamente maturata lungo il cammino di preparazione. E oggi, a distanza di quindici anni, il suo grazie va in particolare a tre persone: innanzitutto la moglie che ha saputo metterlo davanti a un bivio, dopo avergli dichiarato di essersi innamorata; “E tu che fai?”, il suo vescovo, il cardinale Martini, e don Franco Brovelli, allora responsabile dei giovani preti, che han saputo accompagnarlo alla “sua” nuova scelta, alla dispensa e al matrimonio.
E Fiorenzo, oggi marito e padre felice (due figli di 12 e 8 anni) ha una richiesta da rivolgere a quelle ventisei “donne che amano dei preti” che hanno scritto quella lettera al Papa: “Date loro lo spazio e tutto il tempo necessario, ma chiedete loro di arrivare a una scelta. La più chiara e la più limpida possibile. E poi rispettate quella scelta. Siamo chiamati a vivere alla luce del sole: è un diritto dei preti, ma soprattutto è un diritto vostro».
E qui sta tutta la "devastante sofferenza" che emerge dalle parole della lettera delle ventisei al Papa: è il grido di chi sta vivendo una delle situazioni più umilianti in cui può trovarsi una donna (se non si tratta di una libera scelta), la condizione di amante o di prostituta. Discutibile, anche se comprensibile, la via d’uscita che quelle ventisei donne sembrerebbero ipotizzare: l’abolizione dell’obbligo del celibato e la possibilità per i loro partner di sposarsi, pur restando preti.
Probabilmente la via più lontana, vista la tradizione di secoli da parte della Chiesa cattolica in senso contrario ai loro desideri: più facile ipotizzare un’apertura all’ordinazione dei ‘viri probati’, uomini già sposati cui potrebbe essere concesso di diventare preti, pur restando all’interno della loro famiglia, alla stregua dei pastori anglicani accolti in casa cattolica perlopiù con moglie e figli. Eppure la loro ipotesi sarebbe ‘un’ modo per uscire da una logica di doppiezza, purtroppo non così rara.
“Le grandi scelte devono essere pagate e pagate a caro prezzo”, scrive però Fiorenzo. Abbandonare la tonaca significa innegabilmente lasciare qualcosa anche dal punto di vista economico e sociale: “Oggi so che devo guadagnare uno stipendio per mantenere i miei figli, so che devo risparmiare, pagare il mutuo. Non sono più don Fiorenzo e questo ti toglie un sacco di potere, uno stipendio sicuro, un alloggio, l’autonomia decisionale”. Lui non ha rimpianti, ma sa cos’ha lasciato: “Mi manca il celebrare la messa, la facoltà di confessare e di dire Dio ti perdona. La vita che faccio oggi, è un po’ il proseguimento di quel che facevo prima, al servizio dei poveri. Da prete andavo in galera e avevo i rom in parrocchia, così come oggi mi occupo di profughi e di emarginati”.
Una via diversa da quella ipotizzata dalle ventisei compagne della lettera, una vita, per semplificare, che dopo lungo discernimento ha “optato” per un amore personale piuttosto che a quello universale, ma identica è la condivisione d’intenti con la lettera: quel desiderio di “vivere alla luce del sole” o “di rompere quel muro di silenzio e di indifferenza” che mantiene le bocce ferme (così almeno non si rompono). Certo è difficile generalizzare: percorsi e sensibilità sono e restano eminentemente personali (e solo un’adeguata preparazione di “crescita” umana e affettiva possono far emergere con chiarezza il destino della propria vita), ma, come notavano Torresin e Caldirola, autori dei una lunga riflessione su “Il prete innamorato” (Settimana 18/2014) “la situazione più frequente e pericolosa è quella di adattarsi a una doppia vita”.
Un elemento di certezza: oggi che papa Francesco parla di una Chiesa “ospedale da campo”, questa è un’ulteriore testimonianza delle tante ferite da accogliere con delicatezza ed empatia. Perché se non si è disposti alla scelta definitiva di Fiorenzo, il dolore è lancinante.
Ma sono molti anche quelli che hanno optato per una terza via: mantenere fede all’impegno preso un giorno in piena coscienza nelle mani del loro vescovo. Se ogni uomo/donna è fatto per amare, pochi sono quelli a non aver mai vissuto l’esperienza di un innamoramento, prima o dopo l’ordinazione. “Una delle esperienze più entusiasmanti - raccontava con gli occhi che si illuminavano, don Dante Clauser, il prete trentino dei poveri - ma la sofferenza si è trasformata in una serenità indescrivibile e in un amore ancora più grande per il Signore che mi aveva dato la forza della fedeltà”.
Perché occorre notare che il celibato per un monaco o un religioso non è una imposizione della Chiesa, ma una scelta-vocazione personale. Nessuno è obbligato a emettere i voti di povertà, castità  e obbedienza, ma solo in risposta a una vocazione a cui la persona sente di poter rispondere in libertà dopo un prolungato discernimento (postulandato, noviziato, voti temporanei fanno almeno sei anni di ‘prova’!).
Diverso è il caso del presbitero diocesano: lì è la scelta-imposizione della Chiesa latina che chiede all’aspirante presbitero di riconoscere – dopo matura e prolungata riflessione – di accettare il celibato quale condizione necessaria per essere ordinato (e il presbiterato non è un diritto).
È legittimo pertanto interrogarsi sul celibato, anche alla luce dell’esperienza delle chiese riformate o del ministero dei preti protestanti che diventano cattolici (negli Stati Uniti lavorano alla pastorale sociale o familiare con ottime sensibilità), ma affiorano altre domande. Quanto il tema del celibato interviene all’interno delle crisi dei preti? È davvero così lontana l’ipotesi dell’ordinazione di uomini sposati? La ‘teorizzazione’ e la pratica della ‘doppia vita’, messa in atto da alcuni presbiteri, anche in Europa, è in grado di anticipare una riforma del ministero ordinato? E ancora: com’è vissuto il rapporto preti-donne all’interno delle nostre comunità? Esiste davvero una libertà o scontiamo secoli di equazione donna uguale peccato? Quanti preti sarebbero disposti ad accettare ‘una donna per amico’ senza incorrere in crisi di ‘prudenza’?
Tuttavia, proprio spostandosi sul versante femminile la lettera solleva alcuni dubbi sulla percezione della realtà di una coppia che decide di costruire una famiglia (e anche qui occorre un cammino di preparazione). Premesso che ogni vita a due è del tutto originale, sembrerebbe più segno di una scelta d’amore quella di Fiorenzo che ha “lasciato” una strada, se vogliamo un lavoro-missione che amava, e ha deciso per la sua donna. È ciò che fanno tanti coniugi, il cui marito/moglie è chiamato a spostarsi per motivi di lavoro (cambiando città, paese, continente), è la scelta di tante mogli che abbandonano ogni possibilità di carriera per chiedere un part-time che significa più tempo per la famiglia (e oggi non solo per i figli, ma anche per genitori anziani) o di due genitori quando la malattia di un figlio li obbliga a rivedere tutte le proprie abitudini di vita…  La vita di famiglia è un continuo dono della propria vita, una continua scelta per amore.
Ma una scelta d’amore è sempre totalizzante: se un prete ama una donna, non è capace per lei di cambiare prospettiva di vita? E se una donna si accorge che il lavoro di lui diventa per l’amato così indispensabile per la sua vita quale amore più grande del dirgli “segui la tua strada”?
“Ti amo così tanto che ti lascio libero di amare un’altra, altri o il tuo lavoro più di me”.

venerdì 30 maggio 2014


Benedetta sei tu, Maria!

Benedetta sei tu, Maria!
Tu sei la Donna più grande!
‘Io so, Signore, che questa tristezza cambierà in gioia. Non so come, ma lo so!’
"Tu hai pace nell’anima nel momento del buio, nel momento delle difficoltà, nel momento delle persecuzioni, quando tutti si rallegrano del tuo male? Hai pace? Se hai pace, tu hai il seme di quella gioia che verrà dopo. Che il Signore ci faccia capire queste cose”.


Fiducia sei per noi



Regina dei cieli, rallegrati, alleluia;

Cristo, che hai portato nel grembo, alleluia,

È risorto, come aveva promesso, alleluia.

Prega il Signore per noi, alleluia.
Rallegrati, Vergine Maria, alleluia.
Il Signore è veramente risorto, alleluia.
Preghiamo.
O Dio, che nella gloriosa risurrezione del tuo Figlio hai ridato la gioia al mondo intero, per intercessione di Maria Vergine concedi a noi di godere la gioia della vita senza fine. Per Cristo nostro Signore. Amen.

La carezza del bambino mai nato

Scultura del bambino non nato

Il 28 ottobre 2011, nella località Bardejovska Nova Ves, in Slovacchia, è stato inaugurato il monumento del bambino non nato di un giovane scultore di questo paese: Martin Hudáček. L’artista è di Banska Bystrica, al centro della Slovacchia. Alla cerimonia di inaugurazione ha partecipato il ministro della Salute slovacco, MD. Ivan Uhliarik.
Il monumento non solo esprime il rammarico e il pentimento delle madri che hanno abortito, ma anche il perdono e l’amore del bambino non nato verso sua madre. L’idea di realizzare un monumento ai bambini non nati è stata di un gruppo di giovani donne (Movimento di Preghiera delle Mamme), madri che sono consapevoli del valore di ogni vita umana e dei danni che si infliggono, non solo nella perdita irreparabile dei bimbi non nati, ma per il declino permanente della salute mentale (e a volte fisica) di ogni donna che decide, spinta da diverse situazioni, ad abortire suo figlio

 anche su LeggiAmoLaBibbia 

>>> Citazione
" Oggi fa' ardere calde e chiare le candele che hai trasportato tu alla nostra oscurità;conducici, se si può, di nuovo insieme.E' ciò che noi sappiamo: arde di notte la luce tua.Quando su di noi discende il silenzio profondo oh, lascia che udiamo quel timbro pieno del mondo, che invisibile si estende intorno a noi di tutti i figli tuoi canto alto di lode.  
Da forze buone, miracolosamente accolti, qualunque cosa accada, attendiamo confidenti.Dio è con noi alla sera e al mattino e, stanne certa, in ogni nuovo giorno." 
Pastore luterano.+ Dietrich Bonhoeffer.

PARADOSSO NORVEGESE

Il paradosso norvegese  DI ADMIN


E’ stato molto richiesto. Ecco a voi questo video dirompente 
IL PARADOSSO NORVEGESE di Harald Eia
Consigliamo la proiezione con dibattito nelle scuole ai professori di religione, nei gruppi di famiglie, nei gruppi giovanili,nei gruppi culturali, anche tra amici. Questo solo video fatto con ironia e simpatia, ma con una intelligenza acutissima ha messo in ginocchio le pretese di scientificità della teoria sociologica-psicologica del gender. 30 minuti di documentario che incatenano al video. Ringraziamo ancora Caterina Masso Benedetta Scotti e per la traduzione e i sottotitoli in italiano.

Ma noi il Norlevo non lo prescriveremo mai.

Pillole e sindromi


Ma noi il Norlevo non lo prescriveremo mai
di Renzo Puccetti

«Non sussistono, sotto il profilo del fumus, i presupposti per l'accoglimento della proposta istanza cautelare avuto presente, in linea con quanto evidenziato dalle resistenti amministrazioni, che recenti studi hanno dimostrato che il farmaco Norlevo non è causa di interruzione della gravidanza». Con queste parole il giudice del TAR del Lazio ha rigettato l'istanza che per conto di una serie di associazioni, tra cui l'Associazione Italiana Ginecologi e Ostetrici Cattolici e l'Unione dei Farmacisti Cattolici, i Giuristi per la Vita avevano curato per opporsi alla modifica della scheda tecnica della pillola del giorno dopo dove, secondo la modifica introdotta, si riporta che il meccanismo d'azione è soltanto il blocco o il ritardo dell'ovulazione.
È il vecchio giochino del finto sordo. Si dice che c'è la possibilità che la molecola impedisca la sopravvivenza dell'embrione appena concepito, e il rappresentante perfetto della burocrazia che risponde? Interruzione di gravidanza? Macché! La gravidanza inizia con l'annidamento dell'embrione nell'utero della donna e questo non è il caso. Ricorso respinto.
E chi mai aveva sostenuto che la pillola in questione agisse dopo l'annidamento dell'embrione? Avete voglia di avere spiegato in tutte le salse che la definizione di gravidanza qui non c'entra un tubo, ma quello che è in gioco è la vita dell'essere umano appena formatosi, cosa compresa persino dai giudici della Corte di Giustizia dell'Unione Europea nella sentenza che aveva rifiutato la brevettabilità di procedure con soppressione embrionale. Avete voglia di avere dimostrato che non è possibile che una molecola funzioni solo come antiovulatorio se nessuna gravidanza si è verificata nonostante ben 8 donne su 10 avessero ovulato dopo avere assunto la pillolina. Avete voglia di avere fatto comprendere che se non altro è in gioco la corretta informazione di tantissime donne che desiderano essere compiutamente informate su questi temi e la cui decisione dipende dalle risposte fornite. No, queste cose sono per la nostra giustizia quisquilie, pinzillacchere, facezie. Il diritto alla scelta informata e consapevole di cui di continuo la società secolarizzata si vanta di essere promotrice e protettrice, quando arrivi al sodo, trova uno sbarramento insormontabile nella potente azione degli interessi di cui si fa portatrice la lobby dei diritti riproduttivi. 
Si dice che dalle parti del ministero della Salute ci siano persone sensibili alla protezione dei non nati. Non ho dubbi che vi siano. Si dice che ci siano persone fattivamente impegnate perché dalle parole si passi ai fatti. Non ho dubbi. Peccato che in questa occasione, come in altre, i fatti siano stati sorprendentemente antitetici alle attese. Ne sa qualcosa l'onorevole Gianluigi Gigli che, presentata una puntuale interrogazione parlamentare da vero pro-life, si è visto recapitare una squinternata risposta dal rappresentante del Ministero. Una disattenzione? Mah! I pro-life giunti in giudizio si sono trovati l'opposizione dell'avvocatura dello Stato. Non sono un tecnico del diritto, ma mi suona davvero strano che un ministero presidiato da personalità sensibili al diritto alla vita del concepito mandi i suoi avvocati contro chi vuole difendere quello stesso diritto dal l'aggressione farmacologica. Un'altra disattenzione? Ri-mah! Speriamo che le disattenzioni non si accumulino a generare defezioni.
Ora ci sommergeranno di articolesse, post, cinguettii, wikipediate con cui vorranno insegnarci che si tratta di semplici contraccettivi (come se per noi la contraccezione fosse qualcosa di moralmente accettabile). Mi pare già di sentirle certe vocine gioire per la vittoria riportata. Si illudono che dopo questa sentenza ci piegheremo alla prescrizione di questi ormoncini e anti-ormoncini, timorosi di ripercussioni legali derivanti dal nostro rifiuto.
Glielo vogliamo dire chiaro ed in anticipo: "Non ci sperate!". Siamo persone serie, siamo persone che operano la medicina agendo in scienza e coscienza. La nostra scienza ci dice che queste molecole possono distruggere una vita umana appena concepita, la nostra coscienza ci dice che questo è un male a cui non ci si deve prestare. Accoglieremo ogni donna con un problema, la ascolteremo e le parleremo. Se non condivideremo una strada comune la rispetteremo ed esigeremo altrettanto rispetto per noi.
A prescindere da quello che dice un rispettabilissimo giudice, la cui decisione non ci farà diventare acefali automi da prescrizione e dispensazione. 
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Sindrome post-aborto, lettere ai bambini mai natidi Marianna Ninni

Sono sempre più numerose le donne che dichiarano di soffrire di sindrome post-aborto. Fenomeno studiato già da diversi anni negli Stati Uniti, gli studi sulla PAS si stanno di recente diffondendo anche in Italia. Sebbene in tanti tendano a negare l’esistenza di questa sindrome descrivendo il fenomeno come l’ennesimo tentativo da parte della Chiesa o delle istituzioni cattoliche di voler ledere o condizionare la libertà di scelta della donna che decide di interrompere volontariamente la gravidanza, non si possono di certo negare le prime importanti testimonianze. Secondo i dati recenti, difatti, ammonta circa al 62% il numero delle donne che hanno dichiarato di soffrire di questa sindrome.
Secondo l’art. 4 della legge numero 194 del 1978, può ricorrere “all’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsione di anomalie o malformazioni del concepito…”.
Ci persuadiamo, quindi, di conoscere bene quelle che sono le “condizioni” che fanno liberamente scegliere l’aborto, dimenticando, facilmente quanto questo articolo non specifichi in alcun modo quali siano le reali motivazioni “economiche, sociali o familiari” che possano davvero permettere alla donna di scegliere l’aborto come “soluzione necessaria”. Ci si ritrova, così, di fronte ad un vero marasma secondo cui tutto è concesso e chiunque possa ricorrere per qualsiasi ragione all’aborto. Ci sono donne che scelgono di abortire perché troppo giovani, ventenni convinte di non poter rimanere incinta al primo rapporto sessuale occasionale o sicure che a loro non sarebbe mai potuto capitare; ci sono donne che hanno una reale e oggettiva precaria condizione economica e sono impossibilitate persino a sfamare i loro bimbi; ci sono donne che rincorrono ideali di carriera che non possono in alcun modo essere intaccati dall’arrivo di un nuovo bambino, ci sono donne che vengono abbandonate dal compagno con cui convivono subito dopo l’insorgere della gravidanza e ci sono donne che – questo sembra essere il caso più comune -  dichiarano di non voler un bambino dal compagno con cui stanno. Una situazione drammatica che testimonia quanto nei rapporti umani manchi una progettualità di mettere su famiglia soppiantata da un edonismo dirompente e da una superficialità per cui all’incoscienza di avere rapporti occasionali si aggiunge anche una sempre più diffusa incoscienza di mettere al mondo qualcun altro.
«In un contesto sociale normale o protetto, come poteva essere quello di 30 anni fa, la donna che rimaneva incinta manifestava dei timori. C’era paura, com’è normale che ci sia di fronte ad un compito così grande che consiste nel portare avanti la vita di un altro. Ma queste paure, in molti casi, venivano compensate dall’affetto familiare e dal sostegno del marito. Oggi i rapporti sessuali cominciano dai 14 anni in su e sono rapporti non protetti. Queste ragazze sono convinte che a loro non succederà mai e si coprono dietro una doppia negazione. La prima negazione è quella secondo cui l’atto sessuale porti al concepimento e la seconda negazione è quella che si manifesta nei primi mesi di gravidanza. Si arriva quindi a pochi giorni dal terzo trimestre e si deve decidere in fretta. Il panico prevale sulla razionalità e la scelta più ovvia è quella di abortire. Si capisce quanto in tutto questo manchi, non solo una progettualità, ma persino un reale sostegno psicologico» ci spiega Benedetta Foà, psicologa che da anni si occupa dello stress post-aborto,  co-autrice del libro Maternità interrotte.
Qualunque sia la ragione che spinge queste donne ad abortire, molte manifestano una sofferenza inspiegabile, un senso di vuoto, un dolore con cui non riescono a fare i conti. «La tematica della sindrome post-abortiva, vale a dire il grave disagio psichico sperimentato frequentemente dalle donne che hanno fatto ricorso all’aborto volontario, la rivela la voce insopprimibile della coscienza morale, e la ferita gravissima che essa subisce ogniqualvolta l’azione umana tradisce l’innata vocazione al bene dell’essere umano, che essa testimonia» diceva Papa Bendetto XVI ai partecipanti dell’Assemblea Plenaria della “Pontificia Accademia per la Vita”, il 26 febbraio 2011. Ed è per far fronte a questo disagio irrisolto che, da diversi anni, sono nati dei percorsi, dei cammini di fede per la guarigione spirituale e psicologica dopo l’aborto volontario.
Uno di questi metodi è quello ideato da Benedetta Foà e prende il nome di Metodo Centrato sul Bambino. Sviluppato attraverso otto incontri, lo scopo principale di questo metodo è instaurare una relazione tra la mamma/papà e il bambino attraverso delle tappe e dei compiti ben precisi per elaborarne il lutto e lasciarlo andare: il primo è quello di dare un nome al bambino, il secondo consiste nell’acquistare un oggettino che serve per far comprendere alla madre che il figlio è altro da sè e togliere la sensazione di con-fusione (nei primi due mesi di gravidanza, difatti, il bambino è totalmente con-fuso con la mamma, è tutt’uno con la mamma e, a livello psicologico, una mamma che abortisce non lo ha mai visto ma pensa di avere ucciso una parte di se stessa); il terzo compito è dedicato alla scrittura di una lettera per esprimere tutti i sentimenti irrisolti; il quarto si sviluppa intorno a delle esperienze immaginative attraverso cui il genitore incontra simbolicamente il figlio, lo riconosce e lo lascia andare; con il quinto compito si seppellisce l’oggetto comprato perché non ha più senso averlo con sé. È proprio attraverso questa tappa che si lascia andare davvero il bambino. Il percorso si conclude con una Santa Messa per il bambino e con la preghiera che questi venga accolto dalla bontà di Dio.
È ovvio, continua la Dott.ssa Foà, che quando parliamo di aborto dobbiamo fare una distinzione. «C’è qualcuno che, dopo l’evento aborto chiude la sua porticina e non ci pensa più; c’è qualcuno che chiude la porticina e dopo molti anni succede qualcosa e tutto si riapre procurando panico e c’è qualcun altro che il mese dopo l’aborto è sul limite del suicidio. In tanti ricorrono al mio aiuto dopo che sono passati 30 anni da questa scelta».
Una consapevolezza che, di conseguenza, può emergere dopo diverso tempo quando si ri-apre quella ferita irrisolta a causa di un qualsiasi evento scatenante. In certi casi può trattarsi dell’arrivo di un nuovo figlio, in altri casi può insorgere con l’arrivo della menopausa, come mi spiega Valeria d’Antonio, psicologa che collabora con l’apostolato Le Vigne di Rachele, quando queste donne devono fare i conti con quella scelta che le ha spinte a rinunciare all’unico bambino della loro vita. In altri casi ancora, questo disagio emerge anche in molti uomini. Spesso perché responsabili di aver spinto molte donne ad abortire, oppure perché privati dalle loro compagne della possibilità di vivere il dono della paternità. Alla figura dell’uomo è dedicato il prossimo seminario della Dott.ssa Foà Un papà in lutto che si terrà a Medjugorje dal 15 al 19 giugno.
Ad organizzare numerosi seminari ci sono anche i volontari della Vigna di Rachele. Valeria D’Antonio ci racconta un’esperienza simile a quella di Benedetta Foà: «La Vigna di Rachele si occupa della guarigione spirituale e psicologica dopo l’aborto soprattutto volontario. Nasce negli Stati Uniti quasi 30 anni fa mentre è in Italia da soli 4 anni. A portarla in Italia è stata Monika Rodman. Io sono psicologa e nell’equipe c’è sempre una psicologa, uno psicoterapeuta e un sacerdote. Facciamo dei ritiri spirituali di un weekend, dal venerdì alla domenica, e sono dei ritiri molto intensi studiati per questa tematica. Il metodo principale è quello delle scritture viventi, che consiste nella lettura di brani evangelici o biblici su cui vengono fatte delle meditazioni. Il sabato mattina è dedicato al racconto delle storie personali. Molto spesso le cause vanno ricercate anche prima, nell’infanzia, nella vita in famiglia e dedichiamo tutta la mattina del sabato all’ascolto di queste storie. Un altro momento importante è quello in cui si esprimono  i sentimenti irrisolti o la rabbia legati all’aborto attraverso la scrittura di una lettera in cui si confessano le emozioni. Si tratta di un cammino che propende verso il perdono attraverso cui cerchiamo di far capire ai partecipanti che non devono farsi carico del peso di questa rabbia ma devono affidarla ad un Altro. Poi viene costruita una relazione seguendo il processo del lutto: si racconta la storia, si elaborano le emozioni e ci si ricollega con questo bambino perso a cui viene dato un nome. Il ritiro si conclude la domenica. Prima della messa c’è una funzione commemorativa in cui vengono lette le lettere ai bambini, viene data una simbolica sepoltura che fa parte del percorso di elaborazione del lutto, e si arriva finalmente a lasciarli andare affidandoli ad una misericordia divina».
Anche in questo secondo caso, le persone che scelgono di seguire questo percorso di fede, lo fanno perché sono in una condizione di malessere che si trascinano dietro da anni. Quel senso di vuoto irrisolto spinge donne e uomini a fare ricerche su internet, a interrogarsi sulla sindrome post-aborto e li motiva a cercare delle risposte. Sono in tanti a maturare molto tardi la consapevolezza delle conseguenze che un atto del genere racchiude in sé. Se all’inizio, difatti, matura vince la convinzione che non c’è nulla di male e che niente cambierà, che tali siamo e tali resteremo, in seguito all’aborto in molte donne e uomini qualcosa crolla. È quello che succede quando la menzogna «dell’io sarò la stessa persona si sgretola» e le donne capiscono che «che prima c’era un bambino che adesso non c’è più».

mercoledì 28 maggio 2014

Portare un pezzo di Gerusalemme a casa...

8 – Diario dalla Terra Santa. Portare un pezzo di Gerusalemme a casa

DI COSTANZA MIRIANO

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di Costanza Miriano    foto di  Leonora Giovanazzi
La sera del quinto giorno di viaggio avrei tanto voluto andare al Santo Sepolcro per trascorrere la notte lì, finalmente in silenzio, finalmente senza ressa e rumore e confusione: chiude alle 9 e riapre alle 4 di notte, ed è possibile chiedere di stare lì, a porte chiuse. Io mi ero prenotata. Ma, lo confesso, sono una donna di poca fede, e non ce la faccio. Senza contare che, stanchezza a parte, attraversare la città vecchia alle quattro di notte a piedi – le macchine non passano, impossibile prendere un taxi – per tornare in albergo ci mette un po’ pensiero. A mia discolpa vorrei dire che siamo al sesto giorno di un viaggio pienissimo e senza soste, con una media di tre o quattro ore dormite per notte, e i bagagli da fare. Mi arrendo, lo confesso.
La sveglia suona comunque alle sei, non proprio tardissimo, e la luce su Gerusalemme tinge tutte le pietre di rosa. Una meraviglia questa pietra con cui è costruita tutta la città vecchia, che cambia colore con il sole. La visione lirica è subito turbata da uno sguardo alla camera, nella quale probabilmente mentre dormivo è esplosa una piccola intifada tra i miei calzini sporchi e i libri (vuoi partire senza quattro agili volumetti da leggere?). Il che probabilmente spiega come lo spazzolino sia potuto finire in frigo, forse ieri ho preso l’acqua dopo avere lavato i denti, poco prima di svenire dal sonno. In quelle tre orette in cui ho chiuso gli occhi il contenuto della valigia ha colonizzato la camera dell’albergo, prendendo possesso di tutti gli angoli. Radunare tutto è un’impresa, e non basta salire sulla valigia per chiuderla, ci devo proprio saltare sopra, e giocarmi quel che restava dello smalto trasparente per tirare la lampo (mi sono concessa una settimana senza unghie rosse, il brivido della trasgressione).
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Allo scopo di dare un definitivo, letale, tocco di aroma al bagaglio vado a fare un’ultima corsetta – infilare una maglietta bagnata di sudore in un valigia che verrà riaperta dodici ore dopo in certi paesi è punito con la reclusione fino a sei mesi – e decido di seguire le frecce per il monte Scopus, quello da cui si vede il panorama più bello. Ovviamente manco la svolta decisiva, perché mi ritrovo in un quartiere popolare, ed è comunque istruttivo buttare lo sguardo su come vive la gente nelle zone non turistiche.
Doccia, caffè e sono pronta per andare con Leonora alla messa delle 8 al Santo Sepolcro: l’appuntamento è alle sette e mezza, e praticamente sono le sette e trenta sul mio fuso, cioè le 7,40 reali, ma siccome Leonora vive a Milano alle 7,35, dopo avermi bussato invano (sono sotto la doccia), parte. La raggiungo correndo perché ormai è acclarato che io sono le gambe, ma lei è la mente, e senza di lei mi perdo. E poi sei giorni di messe insieme sono il minimo per sancire l’inizio ufficiale di un’amicizia certificata e incrollabile, non possiamo mancare proprio oggi, la sesta.
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Alle 8 e 4, puntuali come orologi slavi, siamo lì. Per chi – come me fino a tre giorni fa – non sa come è fatto il Santo Sepolcro, bisogna sapere che ci sono diverse comunità religiose che se lo contendono, e quindi vengono celebrati insieme riti cristiani copti, siriani, ortodossi e cattolici, mentre le chiavi ce le hanno i musulmani, se ho capito bene, perché lì avevano costruito anche loro un luogo di culto, non ricordo in quale secolo. Così la messa, celebrata da un coreano in un inglese educatissimo e sommesso, è un po’ diciamo animata dagli ortodossi che cantano lì accanto, intorno all’altare costruito sopra il buco nel quale fu piantata la croce di Cristo, sulla roccia del Golgota, quella che si spaccò al momento della morte. Gli ortodossi sono piuttosto rumorosi con i loro canti, e le fedeli, soprattutto se anziane, hanno sempre un gran da fare con delle buste plasticose e molto fruscianti che aprono e chiudono in continuazione per tirare fuori panni e reliquie con le quali toccano le icone e le pietre. Sempre per chi come me non lo sapeva, sotto il Golgota, al piano inferiore della chiesa, c’è la tomba nella quale Giuseppe di Arimatea depose il corpo di Gesù, e lì, intorno alla tomba, c’è una chiesetta nella chiesa, un po’ come la Porziuncola o Loreto, ma molto più piccola. All’ingresso del complesso, quello che racchiude tutte le cappelle, la prima cosa che si incontra è la pietra della deposizione, quella sul quale il corpo di Gesù fu appoggiato dopo la morte. Va bene, non si capisce molto dalla mia descrizione, ma io ci ho provato: ricordo che io fino alla settimana scorsa immaginavo tutto diverso, prima di arrivare, pensavo che avrei trovato una tomba come quella del film di Zeffirelli e intorno una chiesa grande, luminosa e spaziosa. Non credevo che avrei trovato un groviglio di cappelle e icone e candele e lampade regolato in modo complessissimo tra diverse confessioni (a un certo punto per farli smettere di litigare nel 1852 stabilirono che dovesse valere lo status quo, nulla doveva più essere toccato o spostato, ed è per questo che c’è da allora una scala appoggiata a una finestra, scala che nessuno può togliere).
Queste liti intorno a Gesù non mi sconvolgono, mi ricordano che l’uomo è una creatura fatta di fango e portata al male – uno solo è buono, ed è Gesù. E mi confermano anche che il fascino di Gesù è universale. Tutti, anche quelli che lo considerano solo un profeta, avvertono in qualche modo che questa “è roba buona”, che qui c’è qualcosa di grossissimo. E non mi scandalizzano neanche le signore rumorose che devono toccare e baciare e segnarsi e pregare agitandosi tanto. Alla fine noi siamo fatti un po’ così, a volte abbiamo bisogno di segni, di emozioni, di cose che possiamo toccare.
Siamo tutti sulle tracce di qualcosa, noi che siamo qui, qualcosa che fatichiamo a trovare nella confusione, nel rumore, nella folla. Eppure sono certa che non sia sbagliato cercare qui. Anche nelle nostre vite ordinarie a casa, a Roma, a Milano c’è confusione, rumore, folla. Con Gesù è così. Lui non si impone, sta alla porta e bussa, e aspetta il nostro sì, perché la nostra libertà è vera. A volte è una fatica questa libertà, bisogna fare proprio la fatica di trovare spazio per Gesù, di cercarlo nella confusione, di mettere le cose bene in fila nelle nostre vite. A volte siamo così intelligenti e organizzati nelle cose a cui teniamo, ma nella vita spirituale improvvisiamo. Eppure il nostro quotidiano è come Gerusalemme, nasconde il tesoro, solo che bisogna cercarlo, fare spazio, fare silenzio, buttare tutto quello che non serve anche se non è male in sé, solo per il fatto che ci distrae da Lui. E Lui, il tesoro, lo possiamo cercare in tutte le Gerusalemme del mondo, anche quelle vicino, più spesso dentro casa nostra.
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Per l’ultimo giro nella città andiamo al muro del pianto, cioè nell’unica parte del tempio rimasta dopo la distruzione del 70 dC. Non mi spericolo a fare l’archeologa, ma dico solo che a metà del grande spazio bisogna superare un altro controllo, dopo quello dei metal detector. Si entra nell’area delle moschee, e i musulmani controllano che i visitatori non portino né libri né segni esteriori di altre fedi. A me fanno mettere uno scialle, a Leonora anche un pareo a coprire i pantaloni al ginocchio (la foto di lei con i due drappi che la coprono, le scarpe da ginnastica e il cappellino da baseball potrebbe valermi svariate migliaia di euro, se decidessi di ricattarla). Per usare un eufemismo direi che non sono affatto ospitali, e le donne riunite in circolo e coperte – alcune hanno anche i guanti, solo una fessura libera per gli occhi – ascoltano una di loro che predica con un tono molto arrabbiato. Ogni tanto un Allah hu Akhbar gridato fortissimo più volte risuona nell’aria. D’altra parte qui siamo a casa loro e bisogna rispettare le loro regole, anche se la reciprocità chiesta più volte da Benedetto XVI vorrebbe che anche loro facessero lo stesso con noi.
Nell’ultimo giretto al mercato faccio il mio gioco preferito: cercare il negozio più brutto e vedere se trovo qualcosa di comprabile. Rimango folgorata da una gonna verde militare e turchese. Veramente le amiche milanesi alla domanda “ma è talmente brutta da risultare bella, oppure fa proprio schifo?” decretano all’unanimità che fa proprio schifo. È il segno. La compro.
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Seguendo il cardo che divide la città nei quattro quartieri – musulmano cristiano ebraico e armeno – andiamo a pranzo in un posto dove vanno quelli che abitano nel quartiere ebraico, non i turisti. La maglietta sporca di sangue del proprietario la trovo un po’ inquietante, e anche le unghie nere, ma bisogna ammettere che dai piatti viene un profumo incredibile: tutto il cibo qui in Israele è profumatissimo di erbe e spezie.
Un ultimo saluto alla Città Santa e alla Porta di Jaffa saliamo sul pulmino che ci porta all’aeroporto di Tel Aviv. L’ospitalità è stata così incredibile che ogni tanto tutti e cinque ci chiediamo se per caso non si siano sbagliati a invitare proprio noi. Al Ben Gurion una signorina della El Al ci accompagna facendoci passare per le corsie preferenziali, e questa volta i controlli di sicurezza sono velocissimi. E se la El Al è sempre super professionale con tutti, questa volta ci sentiamo davvero dei principi, anche se abbiamo solo un biglietto economy.
Mettiamo insieme quello che ci è avanzato – “io ho ventiquattro soldi”, “io sette”, “io quindici” (il soldo come è noto è la valuta locale) – e facciamo merenda tutti insieme con i biscotti intinti nel latte. D’altra parte siamo in modalità gita delle medie – primi anni di superiori al massimo – e ci salutiamo grati di questa amicizia che ci ha lasciato questo viaggio, un regalo nel regalo (ormai manca solo di fare la pipì insieme mentre l’amica ti tiene la porta). Ci imbarchiamo, si torna a casa, e anche lì siamo pieni di regali, tutti e cinque. Vederli dall’alto, dalla collina del Getsemani, ce li ha resi ancora più belli.
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QUI tutte le foto di Leonora Giovanazzi
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NB:
Ricordo il pellegrinaggio del Giubileo del 2000 in Terra Santa, e leggendo ritrovo lo stesso clima raccontato da Costanza.
Ricordo che ho raccolto un pezzetto di Terra, era solo un pò di terra e qualche sassolino ma dentro di mè c'era la segreta speranza di portare a casa molto di più... un tesoro si portare a casa Gesù.

GiuMa

Un Handel in prima assoluta con il Coro e Orchestra Barocca A.Palladio & Epta di Nicola Piovani

Sabato 31 Maggio  ore 21.00 

nella Basilica dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza. 

Un Handel in prima assoluta con il Coro e Orchestra Barocca A.Palladio



Gli Oratori Joshua (Giosuè) e Joseph and his brethrem (Giuseppe e i suoi fratelli) di Handel, espressione delle piena maturità artistica dell’artista, saranno proposti all’interno della decima edizione del Festival Biblico nell’esecuzione in prima assoluta del Coro e Orchestra Barocca Andrea Palladio diretti da Enrico Zanovello nel concerto "Vicende bibliche nelle musiche di Handel”, sabato 31 maggio alle ore 21.00nella Basilica dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza. I due Oratori furono scritti dal 1746 al 1748 e la prima esecuzione avvenne al Royal Theatre Covent Garden di Londra.
Sul palco, sabato, ci sarà anche l’attore Pino Costalunga, in veste di narratore, che racconterà assieme alla musica queste storie antiche, riscritte appositamente, con lo scopo di sottolineare i passaggi narrativi che fanno attuale e ancora valido il messaggio della vicenda biblica. "La scelta – spiega il direttore del Coro e Orchestra barocca A. Palladio Enrico Zanovello - è caduta su queste due composizioni proprio per il carattere espressamente narrativo delle due vicende bibliche in linea con il titolo del Festival di quest’anno "Le Scritture: Dio e l’uomo si raccontano”. La prima parte del programma con Joshua culmina con la spaventosa caduta delle mura di Gerico che si sgretolano al suono delle trombe, la seconda parte narra la struggente storia di Giuseppe ed i suoi fratelli che segna l’insediamento del Popolo d’Israele in Egitto. La raffinata sensibilità nel trasporre in musica le vicende bibliche porta Handel ad utilizzare organici strumentali particolarmente sontuosi, accanto agli archi accosta la batteria di fiati formati da oboi, fagotti, flauti, trombe, oltre ai timpani e per i momenti guerreschi anche il tamburo militare. Vari i personaggi interpretati da altrettanti solisti come Joshua con la voce di Matteo Mezzaro o Joseph affidato ad Aurelio Schiavoni”. Il concerto, in collaborazione con Associazione Musicale Archicembalo Ensemble, è a ingresso libero fino ad esaurimento posti. Del Progetto di questa anteprima assoluta fa parte anche un cd con le musiche di Handel registrato dal Coro e Orchestra Palladio in occasione proprio del Decennale del Festival Biblico e in collaborazione con la rassegna stessa. Il Cd si può trovare presso gli stand e le librerie in Piazza Duomo per tutta la durata del festival.


Lunedì 2 giugno 2014 alle 21:00

Teatro Comunale - Sala grande - Viale Mazzini, 39, Vicenza - VI

spettacoli
suite strumentale in sette movimenti per sette esecutori
di Nicola Piovani
 
Solisti dell’Orchestra Aracoeli

Flauto Alessio Mancini
Sassofono/Clarinetto  Luca Velotti
Fisarmonica Fabio Ceccarelli
Violoncello Eszter Nagypal
Contrabbasso Andrea Avena
Percussioni/Batteria Ivan Gambini
Pianoforte Nicola Piovani
 
Consulenza ai testi - Piergiorgio Odifreddi
Consulenza al suono - Fabio Venturi
Elementi scenici - Maria Rossi Franchi

Voci registrate 
Piergiorgio Odifreddi, Omero Antonutti, Ascanio Celestini,
Mariano Rigillo, Vincenzo Cerami, Gigi Proietti
 
INGRESSO A PAGAMENTO
intero 15 euro
ridotto 10 euro (anche con Card del Festival 2014)

fonte Festival Biblico

 Già in questi giorni è possibile acquistare i biglietti per 'Epta', l’atteso concerto del premio oscar per ‘La vita è bella’ Nicola Piovani che si terràlunedì 2 giugno alle 21.00 al Teatro Comunale di Vicenza. Una suite strumentale in cui il compositore si diverte a unire suoni, spezzare simmetrie, mescolare motivi arabeggianti a veri e propri richiami alla musica del primo novecento e alle grandi colonne sonore di quarant’anni di musica. Sul palco con Piovani ci saranno i Solisti dell’Orchestra Aracoeli: Alessio Mancini al flauto, Luca Velotti al Sassofono/Clarinetto, Fabio Ceccarelli alla Fisarmonica, Eszter Nagypalal violoncello, Andrea Avena al contrabbasso e Ivan Gambini alle percussioni/batteria. È possibile acquistare i biglietti al Teatro Comunale dal martedì al sabato, dalle 15 alle 18.15, oppure sulla biglietteria online del sito www.tcvi.it o, ancora, presso tutti gli sportelli della Banca Popolare di Vicenza. Per informazioni, invece, si può scrivere abiglietteria@tcvi.it o telefonare allo 0444/ 324442 o al 334 1477761. Il costo del biglietto è di 15 euro più diritti di prevendita per l’intero e di 10 euro sempre più diritti di prevendita per i possessori della Card del Festival Biblico 2014 (info sulla Card su www.festivalbiblico.it).