La tavola rotonda aveva come tema ‘la cura della casa comune’ ed era il momento conclusivo di una serie di incontri interreligiosi, organizzati dall’associazione ‘I care’.
Prendendo la parola per ultimo ho voluto ringraziare i compagni della tavola rotonda, richiamando alcune parole di chi mi aveva preceduto, soffermandomi sul valore che la terra è madre: c’è necessità che il mondo sia più femminile, più accogliente, soprattutto nel mondo religioso e di sognare che il più bel ponte che noi umani si debba costruire abbia i colori de l’arcobaleno.
Ho poi continuato raccontando una storia di Jean Vanier, che fa così:
“Un giovane si recò un giorno da un padre del deserto e lo interrogò: ‘Padre, come si costruisce una comunità?’
Il monaco gli rispose: E’ come costruire una casa, puoi utilizzare pietre di tutti i generi; quel che conta è il cemento, che tiene insieme le pietre.
Il giovane riprese: ‘Ma qual è il cemento della comunità?’
L’eremita gli sorrise, si chinò a raccogliere una manciata di sabbia e soggiunse:
“Il cemento è fatto di sabbia e calce, che sono materiali così fragili! Basta un colpo di vento e volano via. Allo stesso modo, nella comunità, quello che ci unisce, il nostro cemento, è fatto di quello che c’è in noi di più fragile e più povero. Possiamo essere uniti perché dipendiamo gli uni dagli altri”.
Ho concluso dicendo che io ‘voglio’ essere fragile, perché ritengo che la fede sia dei deboli, di quelli che hanno bisogno di ‘altro’ per vivere, non bastando a se stessi. Ho la strana sensazione che l’acqua che sta venendo in questi giorni serva a unire saldamente sabbia e calce.
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