State buoni , Se potete - San Filippo Neri ...

State buoni , Se potete - San Filippo Neri ...
State buoni , Se potete - San Filippo Neri ... Tutto il resto è vanità. "VANITA' DELLE VANITA '> Branduardi nel fim - interpreta Spiridione. (State buoni se potete è un film italiano del 1983, diretto da Luigi Magni, con Johnny Dorelli e Philippe Leroy).

venerdì 21 novembre 2014

« Quando Dio muore di cancro. Una lettera aperta a Umberto Veronesi...

«  

DI AUTORI VARI

veronesi-2

di Robert Cheaib    theologhia
Caro e stimato prof. Veronesi,
Come tanti, ho letto l’articolo sul suo nuovo libro, dove fa l’affermazione che «il cancro, come Auschwitz, è diventato la prova della non esistenza di Dio» e dove dichiara che «non può pensare che un angelo custode guidi la sua mano quando incide e inizia l’operazione».
Ho letto e, per un primo momento, sono andato oltre. Mi ha fatto tornare sull’articolo la gentile provocazione di un’amica che mi ha scritto: «Un tema delicatissimo ed intenso che ci tocca tutti nel profondo. Sarebbe bello essere illuminati alla tua “maniera”».
Un ossequio al pudore
Ecco, per cominciare, una risposta alla mia “maniera” non può partire che dal condividere il pudore con il quale il prof. Veronesi affronta la “realtà” del dolore. Dico realtà e non tema o questione, perché il dolore è concretissimo, è esageratamente intimo e im-mediato e nessun pensiero può intraporsi tra una persona e la sua sofferenza. Per questo, professore, ha tutta la mia stima!
Il dolore a volte diventa un discorso piacevole dove facciamo voli pindarici di pensiero, dimenticando che stiamo parlando di vite spezzate, o almeno ferite. È uno dei pericoli a cui sono esposti gli uomini di pensiero, teologi o filosofi che siano. Lei non ha questo rischio e per questo La ammiro.
Bisogna accostarsi al dolore con pudore, non solo per rispetto verso chi soffre e chi ha una persona cara nel dolore, ma perché chi scrive (e chi legge) non è immune all’esperienza del dolore! Anzi, nel caso di chi scrive, se Lei ha parlato in passato dell’alta probabilità che “ci ammaleremo tutti di cancro”, questa probabilità, dato lo sterminio di cancro tra la mia parentela, diventa quasi una certezza matematica!
Quindi non posso parlare del dolore in una maniera disinteressata, distaccata o semplicemente teorica. Al contrario, parlo da uomo che lotta contro la famosatragica triade del male come chiunque altro. Sono sicuro che Lei condivida con me almeno i due lati estremi di questa triade: sofferenza-colpa-morte. La terza fa parte della definizione dell’uomo secondo Heidegger!
Mi permetta di dirle che contro la diffusa convinzione errata che il credente parli del dolore per difendere Dio, ribadisco di parlare per difendere l’uomo, per ascoltare e aiutare innanzitutto l’uomo che sono a districarmi dinanzi a questo inquilino indesiderato; al male che arriva senza invito.
Il credente non è accecato al problema del male, della malattia. Noi lo vediamo e come! Ne sentiamo il peso più degli altri proprio perché professiamo la fede nel Bene, nel Sommo Bene. Il male è contemplato – e a lungo! – nel nostro mosaico, se non altro perché ogni volta che guardiamo a Gesù Cristo, vediamo nelle piaghe del Crocifisso tutta la triade e non solo la sofferenza. Non a caso nella preghiera paradigmatica insegnata da Gesù preghiamo per essere liberati dal male. Pensi a quanti cristiani elevano questa preghiera tutti i giorni, tante volte al giorno.
Chiarito il “pulpito” da cui parlo, vorrei soffermarmi sulle due affermazioni con cui ho esordito citandola. Vedremo come in realtà sono strettamente collegate.
Auschwitz: tomba di Dio?
Il male è stato da sempre uno degli argomenti più spinosi posti contro l’esistenza di Dio: il male c’è allora Dio non esiste. È questa l’obiezione da cui san Tommaso parte per poi proporre le sue famose cinque vie per argomentare (qualcuno direbbedimostrare) l’esistenza di Dio (cf. STh. q.2 a.3). Auschwtiz rappresenta un’apoteosi di questo male.
Sulla questione del dolore innocente, delle varie forme di male (male naturale, male morale, male metafisico), della genesi del male, ecc. ci sono fiumi di letteratura. Chi è interessato può pescare a volontà tra i volumoni sul tema. Qui vorrei soltanto mostrare che la prospettiva può essere rovesciata: il male c’è allora Dio esiste.
Innanzitutto, visto che Lei stesso rievoca Auschwitz, vorrei ricordare che tanti sopravvissuti ai campi di concentramento, ebrei e non, dicono giustamente che la vera domanda non è: «Dov’era Dio?», ma «Dov’era l’uomo?» (cf. Primo Levi). Chiedersi dov’era Dio è chiudere un occhio sulla responsabilità dell’uomo che ha operato quel grande male e dell’uomo che ha acconsentito tacendo. Lei è sicuramente d’accordo che non erano gli angeli, cherubini, serafini e compagnia bella a torturare la gente ad Auschwitz. Era l’uomo – umano, troppo umano (o troppo poco umano) – che uccideva suo fratello. A ragione scrisse Ravasi nel 2006, dopo la visita di Benedetto XVI ad Auschwitz e dopo il suo commosso discorso: «Prima di mettere Dio sul banco degli imputati, bisogna ricordare che quell’orrore nasce dalle mani dell’uomo, da quella libertà che è dono mirabile ma che può essere un esplosivo dirompente. Dio ha preso sul serio questa qualità che ci ha assegnato creandoci. Non la smentisce per comodità sua e nostra, non ci blocca come un sasso a leggi obbligatorie e a meccanismi fissi quando traligniamo».
Dov’era Dio ad Auschwitz?
– Ci rispondono le opere eroiche di persone come Massimiliano Kolbe. Ce lo dice la “resistenza” e l’opera di Dietrich Bonhoeffer, il teologo che ha collaborato attivamente a un complotto per il rovesciamento di Hilter e che è stato fucilato alla vigilia della fine della guerra.
Ce lo dice Viktor Frankl con la sua lotta per il senso e per dare senso agli altri e alla loro vita durante quel non-senso creato dall’uomo. Ce lo dicono le mille storie di eroismo scritte con la vita e non con le parole da persone che hanno ospitato famiglie ebree a costo di venire denunciati, persone che hanno rifiutato di soccombere alla “banalità del male” (cf. Hanna Arendt) e non hanno permesso ai condizionamenti esteriori di offuscare le loro coscienze nel discernimento del bene e del male.
Le persone che incarnano il bene nel cuore della tempesta del male, queste sono la prova di Dio.
Due moribondi e un letto singolo: Il cancro e Dio
Il cancro, mi dirà Lei professore, è un male diverso. E ha ragione! Fino a un certo punto, però! Perché non sono io a doverLe ricordare quanta responsabilità abbiamo noi nella tragica crescita e diffusione del cancro. È il giocare sporco con la natura che ci fa rovesciare addosso le sue reazioni, perché Dio – se esiste – perdona, la natura no!
Nondimeno non vorrei attribuire tutta la responsabilità del male (ogni male) all’uomo. Il male naturale (detto in gergo “male fisico” c’è). E non vorrei interpretarlo qui con dietrologie archetipiche (peccato originale o altro). Vorrei prenderlo come dato di fatto.
Anche qui l’argomentazione potrebbe diventare un libro, ma vorrei invitarLa, se mi permette, a riflettere su una cosa sola, e per questo parto da un esempio: Se tutti fossimo ciechi, nati tali, non ci sarebbe la sensazione che manchi qualcosa. La cecità sarebbe la normalità. Sentiamo invece che la cecità sia un problema proprio perché esiste l’occhio, la visione. Nella nostra esperienza del male, percepiamo una mancanza, percepiamo un’imperfezione che porta in sé (e non solo come parola) la “perfezione”. In questo senso si potrebbe dire che se non ci fosse il bene, non ci sarebbe il male.
Tornando a noi: percepiamo il peso del male nelle sue diverse forme perché c’è un bene, anzi un Optimum, Sommum Bonum, che ci fa percepire la deficienza (nel senso etimologico del termine) della situazione in cui versiamo. Se non ci fosse quel bene, non sentiremmo quella mancanza. Fatto sta, però, che dentro di noi sussiste un richiamo “naturale” a una pienezza che ci interpella continuamente, un desiderio, un “cuore inquieto” che desidera il bene, il bello, il vero, nel grado sommo e ogni realtà che va contro questo lo sentiamo come stonatura.
Se non ci fosse un’impronta del Bene, il male non sarebbe male, sarebbe una parte della natura che segue le sue leggi senza suscitare in noi alcuna reazione. Quello che dico, forse non è una risposta, ma è sicuramente una domanda, un interrogativo che non permette una facile risposta del tipo “il male (il cancro) c’è, allora Dio non esiste”, perché si potrebbe affermare l’esatto opposto: «Quia malum, Deus est».
Alla fine di questa prima parte della mia condivisione, mi piacerebbe lasciare la parola a un grande filosofo del XX secolo, a un padre del personalismo, Emmanuel Mounier, il quale ha vissuto il male sulla propria pelle, anzi, peggio, sulla pelle di una figlia (e parlo da padre… è più atroce che sulla propria pelle!). La figlia Françoise, nata nel 1938, in seguito ad una iniezione sbagliata, era entrata in coma due anni dopo e non doveva più uscirne. Morirà dopo un lungo calvario nel 1954.
In una lettera alla moglie, Paulette, che porta la data del 20 marzo 1940, Mounier scrive: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo prevedente, si rivela come una nuova richiesta d’amore».
Non oso aggiungere altro… per questo, sul secondo punto, scriverò domani.
Per ora La saluto con grande stima

Vivere come se Dio non esistesse, alla presenza di Dio. Una lettera aperta a Umberto Veronesi (Seconda Parte)

DI AUTORI VARI

15219260749_23deebd57d_z (1)

di Robert Cheaib    theologhia
Caro Professore,
Come promesso, rieccomi a parlare del secondo punto, quello in cui ci regala un’istantanea del suo mondo da medico, portandoci precisamente in sala operatoria dove racconta dell’affidamento commovente che il paziente fa della sua vita nelle sue mani. Al riguardo scrive: «E tu, chirurgo, non puoi pensare che un angelo custode guidi la tua mano quando incidi e inizi l’operazione, quando in pochi istanti devo decidere cosa fare, quando asportare, come fermare un’emorragia».
Mi permetta di dire con un sussulto: Grazie a Dio che non aspetta l’angelo custode! Si immagini che ansia aspettarsi le istruzioni criptate di un angelo per muoversi. Io neanche a tagliarmi le unghie faccio affidamento sul mio angelo custode. Sono convinto che gli angeli non siano così pratici di utensili. Poi immagino la difficile coordinazione tra ali e mani. Inoltre, dato che non si prevede «né malattia né morte» in Cielo, credo che non abbiano facoltà di medicina lassù. Per cui, da credente, le dico: si fidi, fa benissimo a operare così e ha tutto il mio sostegno a non distrarsi con l’angelo custode mentre opera.
Mi scusi il momento di ironia, ma credo che renda l’idea molto meglio di tanti concetti astratti (di cui forse ho abbondato nella prima parte della lettera. Chiedo venia. Cercherò di essere più figurativo ed allusivo nella presente!). Quello che vorrei dirle è che sotto i ferri, la mia fiducia la pongo nella sua bravura, nella sua esperienza, nel suo “amore laico”.
Il cosiddetto amore laico di cui parla – nella mia lettura di fede che non Le impongo ma semplicemente condivido a titolo dialogale – viene dal riflesso dell’Amore creatore di Dio che l’ha creata a sua immagine (dono) per realizzare la sua somiglianza (compito). Essendo creati da Dio e a immagine di Dio, possiamo dire che come esseri umani, partiamo già bene giacché niente è realmente “disgraziato”. La grazia precede, perché tutto scaturisce dal grazioso amore di Dio. Per cui è proprio la normalità che nella natura operi silentemente ma fedelmente la grazia, a tal punto che a volte oso parlare di “grazia della natura”!
Dell’utilità dell’ateismo!!
Per non sembrare di creare una risposta ad hoc, vorrei condividere con lei qualche frammento di un libro su cui sto lavorando. Così magari ricambio il favore dell’estratto del suo libro. Pensi che lo intitolo “Alla presenza di Dio”. Nel secondo capitolo parlo dell’importanza della preghiera, di essere “presenti al Presente”. Il Presente, naturalmente, si riferisce a Dio. Ora qualcuno potrebbe pensare questoPresente come una grande distrazione dal presente. Per questo, nel terzo capitolo dal quale prendo questi assaggi, evidenzio come questa Presenza – lungi dall’essere una distrazione dall’esistenza terrena, una deroga dalla responsabilità o un invito all’“assenza” – è decisamente un invito a vivere presenti nel presente, in modo attivo e responsabile.
Inizio riportando un racconto chassidico, a dimostrazione che non solo i cristiani, ma tutta la tradizione biblica è impostata sul non far del Cielo una licenza dalla terra:
Si racconta che Rabbi Moshe Leib disse una volta: «Non esiste qualità o forza nell’uomo che sia stata creata inutilmente. E anche tutte le qualità basse o malvagie possono essere sollevate al servizio di Dio. Così per esempio l’orgoglio: quando viene elevato si muta in nobile coraggio nelle vie di Dio». E alla domanda: «Ma a che sarà stato creato l’ateismo?», il Rabbi rispose così: «Anch’esso ha la sua elevazione nell’atto di pietà. Poiché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, allora tu non devi piamente raccomandargli abbi fiducia e rivolgi la tua pena a Dio, ma devi agire come se non ci fosse Dio, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo, tu solo».
Questo racconto ci mette dinanzi a un fatto cruciale per la fede: la necessità di rimanere «fedeli alla terra» (Sì, uso in maniera consapevole un’espressione di Nietzsche!). La fede vera non vive nell’illusione di un regno dei cieli di domani trascurando il Regno già presente in mezzo a noi e vivibile oggi (cf. Lc 17,21). La fede vive l’esortazione del salmista: «abita la terra e vivi con fede». Vive la terra, ma con il Cielo nel cuore. Ama il Cielo, ma con la terra nel cuore. Questa tensione non la possiamo tralasciare, proprio per amore del Verbo fattosi carne. È l’inscindibile coordinazione cattolica tra grazia e opere.
Con l’incarnazione, Dio ha assunto la storia, il corpo e il tempo mostrandoci chiaramente che non si può essere realmente di Dio senza passare per il tempo, il corpo e la storia. Non esagero nel dire che una spiritualità disincarnata è una spiritualità dell’anti-Cristo perché non riconosce e non confessa Gesù Cristo venuto nella carne (cf. 2Gv 7).
[…]
Alla scuola di fede realista di Dietrich Bonhoeffer, quella scuola che si sviluppa all’ombra del male totalitario anti-teista, abbiamo delle pagine preziose su come bisogna evitare l’ab-uso di Dio, o dell’ipotesi di Dio, come un tappabuchi. «Non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze. […] Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo; Dio vuole essere compreso da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte». Così anche non dobbiamo attribuirgli il ruolo della prolunga delle nostre mani, lo stucco per le crepe dell’edificio della nostra natura, ecc.
La grazia di Dio non opera malgrado noi, la grazia opera in noi. Si tratta di sinergia (dal greco συν-εργός, che significa “operare insieme”), di co-operazione: Dio opera e l’uomo opera. Siamo «collaboratori di Dio», ci dice san Paolo (1Cor 3,9).  Già Tommaso d’Aquino affermava che la grazia non sostituisce la natura, ma la presuppone e la perfeziona.
[…]
Il cristiano vero è il mistico attivo, che vive «la mistica degli occhi aperti» come la mette Johann Baptist Metz. È un “contemplattivo”, come la conia genialmente un giovane amico sacerdote. Vive unito a Dio, ma non per questo distaccato dal mondo, anzi proprio nell’unione con Dio si trova nel “cuore del mondo” (von Balthasar), vicino ad ogni realtà e ogni persona. La presenza di Dio non diventa un intralcio e neppure uno strumento, ma piuttosto “sale” che dà sapere e “luce” gentile che illumina delicatamente ogni situazione. Così possiamo capire l’appello a un cristianesimo adulto di Bonhoeffer: «non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – “etsi deus non daretur”. E appunto questo riconosciamo – davanti a Dio!». È la grande e carismatica tensione di avere il cuoretalmente impregnati di Dio da non doverselo ri-cordare (riportare al cuore) di continuo.
Questo lungo estratto ci conduce alla conclusione, direi “cattolica”, di Bonhoeffer: «Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo».
Insomma, dov’è Dio nel dolore?
Chiudo riprendendo la questione di Dio ad Auschwitz, ricordando Elie Wiesel che, prigioniero, sentiva i compagni chiedersi: «Dov’è il buon Dio? Dov’è?». Wiesel confessa: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca!”». A queste parole il cardinale Gianfranco Ravasi aggiungeva: «Paradossalmente quella dello scrittore ebreo è la risposta cristiana che sulla forca vede Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo l’isolamento perfetto della sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime come un consolatore magnanimo, ma è lui stesso vittima e impiccato».
In Cristo, Dio non ha dato una risposta teorica al dolore, Dio si è fatto presenza nel dolore del mondo. A ragione scrive Paul Claudel: «Dio non è venuto a sopprimere il dolore. Non è venuto neppure a spiegarlo. È venuto a colmarlo della sua presenza».
Forse come medico, invece di negare Dio, può imitare Cristo, riempire il dolore con una presenza, la Presenza.
Suo in Cristo,


Nessun commento:

Posta un commento

... ROSES & ESPINE..