Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818, Hamburger Kunsthalle, Amburgo.
Enzo Bianchi: fare buon uso della vecchiaia
JESUS, agosto 2014
Rubrica di ENZO BIANCHILa bisaccia del mendicante-6
Senesco. Divento vecchio. I giorni, gli anni volano via, e io mi ritrovo a essere sempre più vecchio, sempre più capace di misurare la distanza della mia andata via da questo mondo. Non ho ancora perso le forze, le sento solo diminuite. Non sono malato ma sono più debole, e piccoli mali alle ginocchia, ai piedi, alla schiena sono sempre più frequenti. Non ho perso la memoria ma ricordo le cose in modo nuovo, come se fossero realtà più distanti…
Quanto al mio cammino umano, ci sono acquisizioni di atteggiamenti prima non facilmente consolidati, e ci sono invece alcune virtù che appaiono con un’urgenza nuova, oltre che essere messe a fuoco come mai mi era successo. Una di queste virtù è la pazienza, che so tradurre il grecohypomoné, parola che contiene l’idea del “restare sotto” (hypó), per sostenere certo, ma che implica anche una sottomissione. Sì, ci si deve mettere sotto per restare sotto. Pazienza non è resa ma sottomissione. Proprio la debolezza che si incontra con la vecchiaia autorizza alla pazienza, che diventa però una forza, una grande forza capace di perseveranza.
Tutto questo non viene da sé, non è automatico, ma se si è capaci di fare buon uso della vecchiaia, allora è un possibile cammino da aprirsi solo camminando. Un cammino tra limiti crescenti che appaiono uno dopo l’altro senza troppo rumore e senza annunciarsi prima. Lentezza nello svegliarsi e nell’attendere ai primi riti del “venire al giorno”; insofferenza sempre più marcata verso i rumori, la folla, il vociare; l’emergere della penombra come uno spazio che può essere abitato da pace e gioia; l’alzarsi più faticoso dalla poltrona su cui si ama leggere i giornali. E poi il constatare la crescita della propria dipendenza dagli altri: si accresce la coscienza dei propri limiti, si ha più bisogno degli altri e sovente si deve scegliere se chiamarli o rinunciare a qualcosa.
Ogni piccola malattia appare come una piccola morte, una sospensione del tempo che altera il ritmo della vita e ci spinge in una situazione di estraneità a noi stessi. Non sono più le malattie dell’infanzia, piene di favole raccontate, in attesa delle visite dei compagni e dei doni delle spremute o del gelato o della granatina. Allora diventare malati sembrava un’occasione per sottrarsi alla routine della scuola. Ora invece la piccola malattia offre familiarità con la fragilità del corpo, che diventa qualcosa che si ha, che si trascina, che ci fa sentire il male.
Quanto alla rete degli amici, ci si accorge che sono distanti, che non hanno tempo, che è diventato difficile, proprio a causa dell’età, reincontrarsi. “Ormai ci muoviamo poco”, “siamo diventati pigri”, “non mi fido più a guidare l’auto”: e così non la presenza ma la voce viene a spezzare la nostra solitudine. “Pazienza!”, si dice con una certa amarezza…
E poi cosa succede agli amanti? I loro corpi non più erotizzati devono imparare la vicinanza e l’intimità senza aggressività e senza passione, ma in un possibile amore estatico che conosce altre profondità. Com’è diversa la carezza di un giovane alla sua ragazza da quella di un uomo anziano alla sua donna! La mano trema non per la vecchiaia, ma per un eccesso di coscienza dell’amore.
Questa fase ultima della mia vita, così disarmata e dipendente, non è forse ciò che mi attende come cammino di fede? Mi viene chiesta pazienza, sottomissione, non resa. E con la pazienza ciò che la può sostenere: la fiducia. Sì, vengono i giorni in cui sarò sempre più povero, in cui neanche i libri che fanno da parete alla mia cella mi diranno qualcosa, e forse non troverò viatico in nulla, in nulla! Gli altri hanno troppo da fare per seppellire i morti, e io, non potendo più nulla, potrò solo avere fiducia, aiutato in questo dalla sempre crescente dipendenza. Altro che arte di lasciare la presa! Solo arte di tendere le mani al di là della morte verso le mani del Signore tese verso di me per prendermi nel suo abbraccio.
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