Omaggio a questa bellissima poesia erroneamente attribuita a Pablo Neruda, narrata da Nando Gazzolo con sottofondo musicale di Riccardo Cimino.
Anima nell'infinito
Quando spengo il giorno
apro il cuore alla notte e lascio la mia anima libera di volare. Vagabonda senza tempo catturo attimi d'eterno nel grembo dell'universo e perdendomi tra i respiri di mondi sconosciuti, nell'eco del silenzio, ritrovo me stessa tra le stelle come fragile lacrima dell'Infinito.
(Alifarfalla)
>>> Cielo stellato
by ilterzoorecchio
PAUL WATZLAWICK ISTRUZIONI PER RENDERSI INFELICI
Posted on 24 gennaio 2011
Traduzione di Franco Fusaro
Introduzione
“Da un essere umano, che cosa ci si può attendere? Lo si colmi di tutti i beni di questo mondo, lo si sprofondi fino alla radice dei capelli nella felicità, e anche oltre, fin sopra la testa, tanto che alla superficie della felicità salgano solo bollicine, come sul pelo dell’acqua; gli si dia di che vivere, al punto che non gli rimanga altro da fare che dormire, divorare dolci e pensare alla sopravvivenza dell’umanità; ebbene, in questo stesso istante, proprio lo stesso essere umano vi giocherà un brutto tiro, per pura ingratitudine, solo per insultare. Egli metterà in gioco perfino i dolci e si augurerà la più nociva assurdità, la più dispendiosa sciocchezza, soltanto per aggiungere a questa positiva razionalità un proprio funesto e fantastico elemento. Egli vorrà conservare le sue stravaganti idee, la sua banale stupidità…”
Queste parole uscirono dalla penna dell’uomo che Friedrich Nietzsche considerava il più grande psicologo di tutti i tempi: Fëdor Michailovic” Dostoevskij. E tuttavia esse esprimono, anche se in forma piacevole e convincente, ciò che la saggezza popolare conosce da sempre: nulla è più difficile da sopportare di una serie di giorni felici.
È giunta l’ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità.
Per di più, il concetto di felicità non è neppure definibile. Così, per esempio, gli ascoltatori della settima puntata di “Abendstudio”, della Radio dell’Assia, nel settembre 1972 furono testimoni di una discussione senza dubbio sorprendente sul tema “Che cos’è la felicità?”, durante la quale quattro rappresentanti di diverse discipline e visioni del mondo non riuscirono ad accordarsi sul significato di questo concetto apparentemente così scontato, e questo nonostante gli sforzi dell’oltremodo ragionevole (e paziente) moderatore.
Ciò non dovrebbe sorprenderci. “Riguardo all’essenza della felicità, ci sono sempre state opinioni diverse,” si legge in un saggio del filosofo Robert Spaemann sulla vita felice “Terenzio Varrone contava 289 interpretazioni, e così anche Agostino. Tutti gli uomini vogliono essere felici, dice Aristotele.” E Spaemann ricorda poi la saggezza di una storiella ebraica in cui il figlio annuncia al padre la propria intenzione di sposare la signorina Katz. “Il padre obietta che la signorina Katz non ha la dote e il figlio ribatte dicendo che solo con lei potrà essere felice. Al che il padre chiede: ‘Essere felice, e cosa ne ricavi?’ ”
Già soltanto la letteratura universale avrebbe dovuto da lungo tempo renderci diffidenti. Disgrazia, tragedia, catastrofe, crimine, colpa, follia, pericolo: ecco la materia delle grandi creazioni. L’Inferno di Dante è di gran lunga più geniale del suoParadiso; lo stesso vale per il Paradiso perduto di Milton, in confronto al quale ilParadiso riconquistato è del tutto insipido; la caduta, nella Leggenda di ognuno di Hugo von Hofmannstahl, è appassionante, mentre l’intervento finale degli angioletti salvatori fa una penosa impressione; il Faust I commuove fino alle lacrime, il Faust IIfa sbadigliare.
Parliamoci chiaro: cosa e dove saremmo senza la nostra infelicità? Essa ci è, nel vero senso della parola, dolorosamente necessaria.
Nel regno animale, ai nostri cugini a sangue caldo le cose non vanno certamente meglio. Si osservino anche soltanto i mostruosi effetti di quella vita nello zoo che pur protegge tali magnifiche creature dalla fame, dal pericolo e dalla malattia (carie compresa), facendone gli equivalenti animali dei nostri nevrotici e psicopatici.
Al nostro mondo, che rischia di essere sommerso da una marea di istruzioni per essere felici, non si può rifiutare più a lungo un salvagente. La comprensione di tali meccanismi e processi non può continuare a essere il dominio gelosamente sorvegliato della psichiatria e della psicologia.
Il numero di coloro che, con competenza e consapevolezza, si costruiscono la propria infelicità può sembrare relativamente grande. Infinitamente più elevato è però il numero di quelli che, anche in questo campo, hanno bisogno di consiglio e aiuto. A loro sono dedicate, come introduzione e guida, le seguenti pagine.
A questa altruistica intenzione non manca però un significato politico. Al pari di un direttore di zoo lo stato sociale si è assunto il compito di assistere il cittadino dalla culla alla bara, rendendo la sua vita sicura e traboccante di felicità. Questo però è possibile solo attraverso una sistematica educazione dei cittadini all’inettitudine sociale, con la conseguenza che nel mondo occidentale crescono a dismisura le spese pubbliche per i servizi sociali e l’assistenza sanitaria. Come ha rilevato Thayer , negli Stati Uniti tali spese sono aumentate tra il 1968 e il 1970 del 34%, da 11 a 14 miliardi di dollari. Secondo recenti statistiche, nella Repubblica Federale Tedesca le sole spese quotidiane per l’assistenza sanitaria ammontano a 450 milioni di marchi, il triplo di ciò che veniva speso nel 1950; ci sono in questo paese 10 milioni di ammalati, e il consumatore tedesco medio prende durante la sua vita 36.000 pastiglie. I dati italiani sono analoghi: nel 1980 gli istituti di cura pubblici hanno ospitato più di nove milioni di degenti; dal 1970 al 1980 il consumo di medicine vendute in farmacia è aumentato di quattro volte e di otto volte quello di beni e servizi per la salute.
Pensiamo a cosa succederebbe se questa tendenza alla crescita si arrestasse o addirittura diminuisse: enormi ministeri e altre colossali organizzazioni crollerebbero, interi settori dell’industria andrebbero in fallimento e milioni di persone resterebbero senza lavoro.
Allo scopo di evitare una tale catastrofe, questo libro vuole offrire un piccolo, responsabile e consapevole contributo. Lo stato sociale ha un così pressante bisogno dell’indigenza e dell’infelicità della popolazione, che questo compito non può essere affidato ai dilettanteschi e isolati tentativi dei pur bene intenzionati cittadini. Anche qui, come in tutti gli altri aspetti della vita moderna, c’è la necessità di una direzione statale. Tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta certamente qualche sventura personale.
Eppure, nella stessa letteratura specifica, soprattutto quindi in quella psichiatrica e psicologica, le indicazioni pertinenti e le utili informazioni sono alquanto rare e solitamente del tutto casuali. A quanto mi risulta, pochissimi colleghi si sono interessati a tale scottante questione. Ci sono delle lodevoli eccezioni, come i franco canadesi Rodolphe e Lue Morisette, con il loro Petit manuel de guérilla matrimoniale; Guglielmo Gulotta, con il suo Commedie e drammi nel matrimonio ; Ronald Laing, con Nodi , e Mara Selvini, con Il mago Smagato, nel quale la celebre psichiatra dimostra come il macrosistema “scuola” necessiti, per evitare ogni cambiamento e andare avanti come sempre, del fallimento della psicologia scolastica. Una menzione particolare meritano poi i libri del nostro amico Dan Greenburg, How to be a Jewish Mother e How to Make Yourself Miserable , un importante lavoro salutato dai critici come indagine onesta e sincera “che ha reso possibile a centinaia di migliaia di esseri umani di condurre un’esistenza realmente vuota”. E last but not least vanno ricordati qui i tre rappresentanti più significativi della scuola britannica: Stephen Potter, con i suoi studi sull’”Upmanship”; Lawrence Peter, lo scopritore del “principio di Peter”; e infine colui che ha scoperto una legge che ora porta il suo nome: J. Northcote Parkinson .
Ciò che il presente libro, sulla base di decennali esperienze cliniche, vorrebbe aggiungere a questi eccellenti studi è una metodica e basilare introduzione ai meccanismi più sfruttabili e verificabili dell’infelicità. La mia esposizione non può tuttavia essere considerata come un’esauriente e completa trattazione dell’argomento, bensì solo come un manuale, una guida che permetterà ai miei lettori più dotati di sviluppare un proprio stile.
Prima di tutto, sii fedele a te stesso…
Questa aurea massima ci giunge da Polonio, il ciambellano nell’Amleto, ed è per noi preziosa in quanto è proprio perché rimane fedele a se stesso che egli giunge a farsi ammazzare da Amleto “come un topo”, dietro una tenda. In Danimarca, evidentemente, l’aurea massima dell’origliatore non si era ancora diffusa.
Si potrebbe obiettare che questo modo di rendersi infelici era eccessivo, ma dobbiamo concedere a Shakespeare una certa libertà poetica. Con questo non viene intaccato il principio secondo cui si può vivere in conflitto con il mondo circostante e specialmente con il prossimo. È universalmente risaputo infatti che ci si può creare l’infelicità anche nel chiuso della propria mente, pur essendo questo assai difficile da capire e attuare veramente. Si può rimproverare al proprio partner la mancanza d’amore, accusare il superiore di malafede e rendere responsabile il tempo del nostro raffreddore, ma come si fa a diventare giorno dopo giorno avversari di noi stessi?
Come tanti segnali indicatori, auree massime ci mostrano la strada per l’infelicità; esse sono fissate dal sano buon senso, per non parlare della sana sensibilità popolare o addirittura dell’istinto per ciò che avviene nel profondo. Alla fin fine è del tutto marginale la scelta del nome per questa meravigliosa facoltà. Si tratta in fondo della convinzione secondo cui c’è un unico punto di vista valido: il proprio. Si pervenga una volta a questa convinzione e ben presto si dovrà concludere che il mondo sta andando in rovina. Ed è qui che si distinguono gli esperti dai dilettanti. Questi ultimi finiscono a volte per alzare le spalle e a volte per arrangiarsi. Chi invece rimane fedele a se stesso e ai propri principi non è disposto a nessun facile compromesso; posto di fronte alla scelta tra l’essere e il dover essere, di cui già parlano le Upa-nishad, egli si decide incondizionatamente per il mondo come deve essere e rifiuta il mondo quale esso è. Come un capitano, egli guida con fermezza la nave della propria vita nella notte tempestosa, una nave che anche i topi hanno abbandonato. È proprio un peccato che dal suo repertorio sembri mancare un’aurea massima degli antichi romani: Ducunt fata volentem, nolentem trahunt — il fato conduce dolcemente chi lo segue, trascina chi gli resiste.
Egli resiste, infatti, e certamente in un modo del tutto particolare. In lui, cioè, la riluttanza diventa fine a se stessa. Nella preoccupazione di essere fedele ai propri principi, finisce per rifiutare continuamente ogni cosa, perché non rifiutare significherebbe già tradire se stesso. Il semplice fatto che il prossimo gli consigli qualcosa è quindi un motivo per rifiutare, anche nel caso in cui seguire tale consiglio sarebbe oggettivamente nel suo stesso interesse. (Secondo il famoso aforisma, essere maturi significa saper, fare ciò che è giusto anche se sono i genitori ad averlo vivamente consigliato.)
Ma il vero genio naturale va ancora più in là e in atteggiamento di eroica coerenza rigetta anche ciò che a se stesso appare come la migliore raccomandazione, in quanto raccomandazione fatta a se stesso. Il serpente, cioè, non solo morde la propria coda, ma divora se stesso, e così si determina un ulteriore e del tutto particolare stato di infelicità.
Ai miei lettori poco dotati posso soltanto presentare questa condizione come sublime ideale, ma per loro del tutto irraggiungibile.
Quattro giochi con il passato
Si dice che il tempo guarisca ferite e dolori. Questo può essere vero, ma non dobbiamo scoraggiarci perché è senz’altro possibile proteggersi da questo effetto del tempo e fare del passato una fonte di infelicità. Fin dai tempi più remoti, abbiamo a tale scopo almeno quattro meccanismi a disposizione.
1. L’esaltazione del passato
Anche il principiante può, con un po’ di abilità, riuscire a vedere il proprio passato attraverso un filtro che lasci trasparire il buono e il bello nella luce più trasfigurante. Solo chi non riesce a mettere in opera questo espediente ricorda la propria pubertà (per non parlare dell’infanzia) con crudo realismo, come periodo dell’insicurezza, del dolore del mondo e dell’ansia per il futuro, e non rimpiange di quei lunghi anni neppure un solo giorno. Al più dotato aspirante all’infelicità, invece, non dovrebbe essere difficile riconoscere nella propria giovinezza l’età dell’oro irrimediabilmente perduta, rendendosi così accessibile un’inesauribile riserva di tristezza.
Questo è naturalmente solo un esempio. Un altro potrebbe essere la profonda tristezza per la rottura di una relazione d’amore. Resistete alla ragione, alla memoria e ai vostri migliori amici, che con le loro parole vi vogliono far credere che la relazione fosse da tempo mortalmente malata, e che troppo spesso vi siete chiesti in qual modo avreste potuto fuggire da quell’inferno. Non credete assolutamente che la separazione sia il male di gran lunga minore. Persuadetevi instancabilmente che questa volta un serio e leale “ricominciare da capo” porterà a un risultato magnifico (non sarà così). Fatevi trascinare da una considerazione eminentemente logica: se laperdita dell’essere amato addolora così atrocemente, quale gioia sarà dunque ilritrovarsi. Isolatevi dai vostri simili, rimanete in casa, nelle immediate vicinanze del telefono, pronti per l’eventuale sopraggiungere del momento felice. Se l’attesa dovesse essere per voi troppo lunga, allora una millenaria esperienza umana vi consiglia di riallacciare una identica relazione con un partner del tutto simile al precedente, per quanto diversa possa sembrare all’inizio.
2. La moglie di Lot
Un ulteriore vantaggio della fedeltà al passato consiste nel fatto che in questo modo non rimane il tempo di dedicarsi al presente. Rivolgendosi al presente, potrebbe a ogni istante succedere che la visuale si sposti accidentalmente di 90 o di 180 gradi, giungendo in tal modo alla constatazione che il presente ha da offrire non solo ulteriore infelicità, bensì anche occasionale non-infelicità; per non parlare poi delle molte specie di novità che potrebbero scuotere quel pessimismo a cui ci siamo votati. In tal senso richiamiamo alla memoria con ammirazione la moglie di Lot, nostra maestra biblica. Ricordate? L’angelo disse a Lot e alla sua famiglia: “Salvati, non guardarti indietro e fuggi velocemente, affinché tu non abbia a morire. ” Sua moglie invece guardò indietro e divenne una statua di sale (Gen., XIX, 17 e 26).
3. Il fatale bicchiere di birra
In un suo film, The Fatal Glass of Beer, uno dei vecchi maestri del cinema comico americano, W.C. Fields, mostra l’orribile e inarrestabile decadimento di un giovane che non sa resistere alla tentazione di bere il suo primo bicchiere di birra. Non può passare inosservato l’indice alzato in segno di ammonimento (anche se leggermente tremante per il riso soffocato): breve è il gesto, lungo il rimorso. E quanto è lungo! (Vengono in mente un’altra biblica progenitrice, Eva, e quella certa mela…)
Questa fatalità ha il suo incontestabile tornaconto, che finora è stato pudicamente nascosto ma che nella nostra illuminata epoca non può più venire taciuto a lungo. Pentimento o no, per noi è molto più importante il fatto che le irreparabili conseguenze del primo bicchiere di birra non solo non giustificano gli ulteriori bicchieri, ma li rendono ineluttabili. Detto altrimenti: d’accordo, ci si sente colpevoli, ma lo si sarebbe dovuto sapere allora, adesso è troppo tardi. Allora si commise un peccato, adesso si è vittima del proprio sbaglio. Questa è una maniera forse passabile, ma certamente non ideale per realizzare la propria infelicità.
Cerchiamo quindi di perfezionarla. E se non c’entrassimo niente con quel fatto? Se nessuno potesse accusarci di complicità? Nessun dubbio che allora saremmo veramente vittime, e ci provi pure qualcuno a scuotere questo nostro status oppure ad attendere da noi che facciamo qualcosa contro di esso. Quello che ci cagionarono Dio, mondo, destino, natura, cromosomi e ormoni, società, genitori, parenti, polizia, insegnanti, medici, capi o soprattutto amici, è talmente grave che la minima insinuazione circa il poter forse fare qualcosa contro tale condizione è già di per sé un’offesa. E inoltre manca di scientificità. Qualsiasi testo di psicologia ci dice quanto la personalità sia determinata dai fatti accaduti nel passato, soprattutto nella prima infanzia. Del resto, ogni bambino sa che ogni cosa accaduta lo è per sempre. Ciò spiega tra l’altro la brutale serietà (e la lunghezza) delle relative indagini psicologiche. Dove si andrebbe a finire se un numero crescente di persone si convincesse che la loro condizione è disperata ma non seria? Si consideri soltanto l’esempio ammonitore dell’Austria, il cui vero inno nazionale, anche se si continua a negarlo, è la simpatica canzone “O du lieber Augustin, ailes ist hin” (O mio caro Agostino, tutto è finito).
Nei rari casi in cui, senza il nostro intervento, il libero corso delle cose ci ricompensa del trauma subito o del rifiuto del passato, e ciò che desideriamo ci cade gratuitamente tra le braccia, la persona esperta non si perde d’animo. La formula “Ora è troppo tardi, ora non lo voglio più” le permette di restarsene inaccessibile nelle isolate stanze della sua indignazione e di impedire che le ferite inferte dal passato giungano a guarigione con delle zelanti leccate.
Ma il non plus ultra, che indubbiamente presuppone la genialità, consiste nel rendere responsabile il passato anche del bene, a tutto vantaggio della presente infelicità. Esempio ineguagliabile di questa variazione sul tema è la storica frase pronunciata, a quanto pare, da un lavoratore del porto di Venezia, quando gli Asburgo lasciarono questa città: “Maledetti gli Austriaci, che ci hanno insegnato a mangiare tre volte al giorno! ”
4. La chiave perduta, ovvero “ancora lo stesso”
Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa ha perduto. “La mia chiave,” risponde l’uomo, e si mettono a cercare tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: “No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio.”
Assurdo? Se è così che pensate, state cercando anche voi nel luogo sbagliato. Perché il vantaggio, in questo caso, è che una tale ricerca non porta a niente, se nonancora allo stesso, e cioè al niente.
Dietro questa semplice espressione si cela una delle più efficaci e funzionali ricette per le catastrofi che sia apparsa sul nostro pianeta in milioni di anni e che ha portato all’estinzione intere specie. Si tratta di un gioco col passato conosciuto dai nostri animaleschi antenati fin dal quinto giorno della creazione.
Al contrario del precedente meccanismo di attribuzione di causa e colpa alla force majeure degli eventi trascorsi, questo quarto gioco si fonda sull’ostinata fedeltà nei confronti di adattamenti e soluzioni che in un imprecisabile passato si rivelarono sufficienti, efficaci o forse perfino gli unici possibili. Per ciò che riguarda ogni siffatto adattamento a situazioni determinate, il problema è che queste ultime mutano col passare del tempo. Ed è proprio qui che interviene questo gioco. Da un lato è chiaro che nessun essere vivente può rapportarsi al mondo circostante privo di un qualsiasi progetto (vale a dire: oggi così, domani in altro modo). La vitale necessità dell’adattamento conduce inevitabilmente alla formazione di precisi modelli di comportamento, il cui scopo ideale sarebbe una sopravvivenza quanto più possibile efficiente e priva di sofferenze. Per delle cause non ancora chiarite dagli studiosi del comportamento, tanto gli animali quanto gli uomini tendono d’altro lato a considerare questi adattamenti, che si rivelarono all’occasione i migliori possibili, come gli unici eternamente praticabili. Questo fatto porta a una duplice cecità: in primo luogo, appunto, l’adattamento in questione con il passare del tempo non è più il migliore possibile; in secondo luogo, accanto a esso esiste sempre tutta una serie di altre soluzioni, o almeno esiste ora. A sua volta questa doppia cecità ha due conseguenze: da un lato, non si utilizza la soluzione giusta e si complica la situazione; dall’altro, sotto la crescente pressione del disagio si giunge all’unica conclusione apparentemente logica, cioè di non essersi dati sufficientemente da fare. Si continua a utilizzare la stessa “soluzione”, col solo risultato di incrementare il disagio.
L’importanza che questo meccanismo possiede in relazione al nostro argomento è evidente. Esso può essere sfruttato anche da principianti, senza che sia necessaria una formazione specifica; è anzi talmente diffuso da offrire notevoli redditi, fin dai tempi di Freud, a generazioni di specialisti, dai quali tuttavia esso non è chiamato “La ricetta dell’ancora lo stesso”, bensì nevrosi.
Non è comunque il nome ad avere importanza, ma l’effetto. E questo è garantito, almeno finché l’aspirante all’infelicità si attiene a due semplici regole. Primo: esiste un’unica soluzione possibile, consentita, ragionevole, sensata e logica del problema, e se questi sforzi non hanno ancora avuto successo, questo prova soltanto che non ci si è ancora sufficientemente applicati a essa. Secondo: la supposizione che esista solo quest’unica soluzione non può mai in quanto tale essere messa in discussione; prove di verifica possono essere fatte solo relativamente alla sua applicazione.
Russi e americani
Vi chiederete forse chi, come l’uomo nell’esempio della chiave perduta, si comporterebbe in maniera così assurda. Egli certamente sa con precisione, e lo dice anche al poliziotto, che la chiave non si trova lì dove viene cercata. D’accordo, è più difficile trovare qualcosa nel buio (del passato), piuttosto che nella zona di luce (del presente); ma oltre a questo la storiella non dimostra niente.
Ah, e perché credete voi che l’uomo venga presentato come un ubriaco? Semplice: perché la barzelletta, per raggiungere l’effetto desiderato, deve far credere con questo semplice espediente che nell’uomo c’è qualcosa che non funziona, che egli sa e non sa qualcosa.
Esaminiamo più da vicino questo qualcosa. L’antropologa Margaret Mead chiese scherzando quale fosse la differenza tra un russo e un americano. L’americano, disse, ha la tendenza a fingere un mal di testa quando vuol sottrarsi discretamente a uno sgradito impegno in società; il russo, invece, deve avere davvero il mal di testa.Ex oriente lux, si può soltanto ripetere ancora una volta, perché concederete che la soluzione russa è infinitamente migliore e più elegante. Senz’altro l’americano raggiunge il suo scopo, ma con la consapevolezza di imbrogliare. Il russo, al contrario, rimane in armonia con la propria coscienza. Nel caso la situazione lo richieda, egli può provocare un’opportuna giustificazione, senza sapere (e quindi senza esserne responsabile) come ciò accada. La sua mano destra, per così dire, non sa cosa fa la sinistra.
In questa specialità sembra che ogni generazione produca i suoi grandi esperti, i quali tuttavia spesso agiscono di nascosto e soltanto raramente diventano noti al pubblico. Così, ai nostri giorni, il meno dotato guarda con ammirazione a due uomini di cui adesso tratteggeremo il talento.
Il primo è un certo Bobby Joe Keesee, che attualmente, secondo la United Press del 29/4/ 1975, sta scontando vent’anni di carcere per il rapimento e l’uccisione del viceconsole americano a Hermosillo, in Messico. Quando il giudice, prima di pronunciare la sentenza, gli chiese se aveva qualcosa da dire a sua discolpa, egli rispose: “There is nothing more I could say. I got involved in something I realize was wrong. ” Neppure la migliore traduzione può rendere giustizia all’eleganza di questo suo distacco dal fatto. Volendo, la prima frase può essere tradotta con: “Non ho nulla da aggiungere.” La seconda invece non è così facile. “I got involved” può riferirsi sia alla involontarietà che all’intenzionalità; quindi o “Sono stato coinvolto in qualcosa”, oppure “Mi sono immischiato in qualcosa”. In un caso o nell’altro, però, il punto critico è il successivo impiego di ”I realize” al presente, come a dire “qualcosa di cui io (adesso) so che era sbagliato”. In altre parole, quando commise il reato, questo non gli era chiaro.
Tutto ciò sembra di per sé quasi irrilevante. Ma diventa interessante quando, proseguendo nella lettura, veniamo a sapere che Keesee aveva disertato dall’esercito americano, rubato un aereo e raggiunto Cuba. Al ritorno negli Stati Uniti fu per questo condannato a due anni di prigione, quantunque egli affermasse di aver agito su incarico della CIA. Nel 1970 giunse perfino a far parte di un gruppo di ostaggi tenuti prigionieri dai guerriglieri palestinesi ad Amman, e nel 1973, tra lo stupore generale, ricomparve in un gruppo di prigionieri di guerra americani rilasciati dai vietcong.
In maniera meno avventurosa ma in compenso più frequente, Mike Maryn riesce, per così dire da sonnambulo, a finire nei guai. Secondo un’informazione di stampa del 28/7/1977 , fino a quel momento era stato aggredito e derubato ben 83 volte, e 4 volte gli fu portata via l’automobile. Egli non è né un gioielliere né un portavalori. I suoi aggressori erano ragazzi, giovani, uomini adulti e parecchie donne. Neppure lui sa spiegarsi questo fatto e la polizia non ha una spiegazione migliore di quella secondo
cui tale individuo si trova “nel posto sbagliato, nel momento sbagliato”.
Già, direte voi, ma con questo non sappiamo ancora come ciò possa accadere. Ancora un po’ di pazienza, prego.
La storia del martello
Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l’ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l’esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questo abbia il tempo di dire “Buon giorno”, gli grida: “Si tenga pure il suo martello, villano! ”
L’effetto è notevole, la tecnica relativamente semplice, anche se nient’affatto nuova. Già Ovidio la descrisse nella sua Ars amatoria, anche se purtroppo solamente in senso positivo: “Convinciti che ami, pur desiderando fuggevolmente, e poi credilo tu stesso… Ama veramente solo colui che riesce a convincersi di ardere di passione.”
Chi è in grado di attenersi alla prescrizione di Ovidio non dovrebbe incontrare difficoltà nell’u-tilizzare questo meccanismo. Non c’è quasi nulla di meglio, nella creazione dell’infelicità, che il mettere l’inconsapevole partner di fronte all’ultimo anello di una lunga e complicata catena immaginaria, nella quale egli svolge un ruolo decisivo e negativo. Il suo sconcerto, il suo sgomento, il suo asserito non comprendere, la sua indignazione, il suo voler discolparsi sono per voi la prova inconfutabile che avete ragione, che avete accordato la vostra benevolenza a chi non lo meritava, e che ancora una volta si è abusato della vostra bontà.
Anche le più virtuosistiche utilizzazioni di una tecnica hanno dei limiti, e la morale della storia del martello non fa eccezione. Il sociologo Howard Higman della Colorado University parla a questo proposito di “particolarità non specifica”{nonspecific particular) e di una sua ritorsione sul partner. Per esempio le mogli, secondo lui, sono portate a chiedere ad alta voce dalla stanza vicina: “Che cos’è?”, aspettandosi che il marito si alzi e vada da loro per vedere di che cosa si tratta, e raramente restano deluse. A un suo amico sposato riuscì però il tentativo di dare a questa situazione archetipica una nuova svolta, ribaltando la situazione. Sedeva nel suo studio, quando sua moglie ad alta voce chiese dall’altra stanza: ” È arrivato? ” Senza sapere di che si trattasse, rispose: “Sì.” Subito lei volle sapere: “E dove l’hai messo? ” “Assieme all’altro,” disse il marito. Per la prima volta da quando era sposato, riuscì in questo modo a lavorare indisturbato per delle ore .
Ma torniamo a Ovidio, o meglio ai suoi successori. Qui giunge a proposito il famoso farmacista francese Emile Coué (1857-1926). Egli è il fondatore di un metodo di autosuggestione, anch’esso purtroppo stravolto in senso positivo, con il quale ci si convince che le cose vanno sempre meglio. Con un po’ di ingegno si può tuttavia ribaltare Coué e mettere la sua tecnica al servizio dell’infelicità.
Sappiamo ormai che la condizione, da noi ritenuta indispensabile, di ogni situazione in cui la mano destra non sa quello che fa la sinistra può essere imparata. Ecco a tale scopo una serie di esercizi.
Esercizio n° 1. Sedetevi in una comoda poltrona, possibilmente con i braccioli, chiudete gli occhi e immaginate di addentare un maturo e suc-coso limone. Con un po’ di pratica l’immaginario limone vi farà venire realmente l’acquolina in bocca.
Esercizio n° 2. Rimanete nella poltrona, tenete ancora gli occhi chiusi; spostate adesso la vostra attenzione dal limone alle scarpe. Ben presto vi accorgerete di quanto scomodo sia portare delle scarpe. Per quanto comode vi sembrassero finora, comincerete a sentirle strette in qualche punto e immediatamente diverrete consapevoli di altri fastidi, come bruciori, sfregamenti, dita ricurve, caldo o freddo, e cose del genere. Esercitatevi finché il portare scarpe, cosa finora ovvia e banale, divenga per voi particolarmente spiacevole. Acquistate poi delle scarpe nuove e notate come esse, che in negozio calzavate alla perfezione, divengano dopo un po’ scomode quanto le altre.
Esercizio n° 3. Rimanendo nella poltrona, osservate il cielo attraverso la finestra. Con un po’ di abilità scorgerete ben presto nel vostro campo visivo numerosi, minuscoli punti rotondi che, mantenendo fisso lo sguardo, scendono lentamente verso il basso; strizzando però gli occhi, tornano su velocemente. Notate inoltre che, quanto più vi concentrate su di essi, sembrano diventare sempre più grossi e numerosi. Considerate la possibilità che si tratti di una grave malattia, perché, se i puntini arrivano a occupare interamente il vostro campo visivo, per voi sarà molto difficile vederci ancora bene. Andate dall’oculista. Egli cercherà di spiegarvi che si tratta di innocue mouches volantes. Considerate allora la possibilità o che egli avesse il morbillo quando questa malattia è stata spiegata agli studenti di medicina del suo corso alla clinica oculistica universitaria, oppure che non vi voglia informare, per pura pietà, dell’incurabile decorso della vostra malattia.
Esercizio n° 4. Se l’espediente delle mouches volantes non avesse successo, non dovrete darvi per vinti. I nostri orecchi offrono una possibilità equivalente. Andate in una stanza il più possibile silenziosa; vi accorgerete di udire improvvisamente un ronzio, un fruscio, un leggero sibilo o un altro simile suono invariabile. Normalmente questo suono è coperto dai rumori ambientali; ma con una adeguata attenzione potrete percepirlo sempre più forte e più spesso. Andate allora dal medico. A questo punto vale quanto detto all’esercizio n° 3, con la differenza che il medico vorrà minimizzare il fatto, facendolo passare per un normale tinnitus. (Avvertenza per gli studenti di medicina: gli esercizi n° 3 e 4 non fanno per voi. Siete comunque già abbastanza occupati a scoprire in voi i cinquemila sintomi sui quali si basa la diagnostica della medicina interna, per non parlare degli altri settori della medicina.)
Esercizio n° 5. Ora siete sufficientemente preparati, e evidentemente anche dotati di talento, per trasferire la vostra abilità dal proprio corpo all’ambiente circostante. Cominciamo con i semafori. Dovreste già aver notato che questi hanno la tendenza a rimanere verdi finché vi avvicinate, per passare dal giallo al rosso nel preciso momento in cui voi non potete più arrischiarvi ad attraversare l’incrocio. Resistete alla vostra ragione, la quale vi suggerisce che come minimo trovate con la stessa frequenza il rosso e il verde, e il successo è garantito. Senza esserne consapevoli, sommerete ogni semaforo rosso alle pene già subite, ignorando al contrario tutti quelli verdi. Ben presto non riuscirete più a respingere l’impressione che ostili potenze superiori si accaniscano su di voi, e il cui influsso non si limita affatto al vostro luogo di residenza, ma facilmente vi segue a Oslo o a Los Angeles. Nel caso non andiate in automobile, potreste sempre scoprire che alla Posta o in banca la coda in cui vi mettete è la più lenta, o che il vostro aereo attende sempre all’uscita più distante dalla sala sportelli.
Esercizio n° 6. Ormai sapete di essere sotto il dominio di oscure potenze. Questa consapevolezza vi rende possibili ulteriori, importanti scoperte, perché ora il vostro sguardo è pronto a cogliere connessioni sorprendenti, che sfuggono invece alle ottuse e inesperte intelligenze normali. Controllate scrupolosamente la vostra porta di casa, fino a trovare un graffio mai notato prima. Interrogatevi sul suo significato: è la traccia di un ladro, il risultato di un tentativo di scasso, un danno intenzionale alla vostra proprietà, un segno particolare per identificarvi? Resistete anche qui alla tentazione di minimizzare la cosa; non commettete neppure l’errore di andare concretamente al fondo della questione. Trattate quest’ultima da un punto di vista puramente astratto, perché ogni verifica pratica della vostra supposizione pregiudicherebbe l’esercizio.
Se attraverso questo esercizio avete sviluppato un vostro stile personale e una vista acuta per le insolite e misteriose connessioni, noterete presto fino a che punto la vita quotidiana sia attraversata da questi fatali intrecci. Supponiamo che stiate aspettando l’autobus, il quale già da un pezzo sarebbe dovuto arrivare. Ingannate il tempo leggendo il giornale, ma date spesso uno sguardo alla strada. All’improvviso il vostro sesto senso vi dice: “Eccolo!” Vi volgete di scatto ed effettivamente, in lontananza, ancora qualche isolato più in là, l’autobus è apparso. Sorprendente, vero? E tuttavia è solo un piccolo esempio di quella multiforme chiaroveggenza che lentamente si va formando in voi e che acquista la sua massima importanza laddove ogni cosa si profila dannosa per voi.
Esercizio n° 7. Appena siete sufficientemente convinti che stia succedendo qualcosa di sospetto, parlate con amici e conoscenti. Non c’è metodo migliore per distinguere i lupi travestiti da agnelli, che in qualche oscura maniera c’entrano nel vostro problema, dai veri amici. I primi si tradiranno, nonostante la loro astuzia o proprio a causa di essa, per aver voluto convincervi che la vostra supposizione non sta in piedi. Ciò non vi meraviglierà, perché è naturale che una persona non ammetta apertamente di volervi danneggiare. Egli, anzi, ipocritamente vi distoglierà da quel sospetto secondo lui infondato e cercherà di convincervi delle sue buone e amichevoli intenzioni. Così saprete non solo chi è coinvolto nel complotto, ma anche che sotto ci deve essere proprio qualcosa, altrimenti perché quegli “amici” si sforzerebbero di convincervi del contrario?
Chi si è dedicato a questi esercizi si sarà convinto che non solo il russo di Margaret Mead, l’uomo del martello o i geni naturali come i citati Keesee e Maryn, bensì anche il cittadino medio può riuscire, attraverso questo speciale training mentale, a crearsi una penosa situazione, e senza sapere di esserne l’autore. Consegnato a un gioco di eventi incontrollabili, egli può onestamente e senza limiti soffrirne. A tal proposito, tuttavia, ecco un avvertimento.
La manciata di fagioli
Questa nozione di mondi superiori non è certamente così semplice. Non si possono escludere errori, tra i quali il più gravido di conseguenze è il nocciolo di questa storia.
Prima di morire, una giovane moglie strappa al marito la promessa solenne di non avere relazioni con altre donne dopo la sua morte. “Se tu non mantieni la promessa, il mio spirito ritornerà e non ti darà pace.” Per un po’ l’uomo le si mantiene fedele, ma dopo alcuni mesi conosce un’altra donna e se ne innamora.
Poco dopo comincia a presentarglisi ogni notte un fantasma, che lo accusa di aver mancato alla parola data. Che si tratti di un fantasma è per l’uomo fuori discussione, perché esso si dimostra informato non solo su ciò che avviene quotidianamente tra lui e la nuova donna, bensì anche riguardo a pensieri segreti, speranze e sentimenti. Quando la situazione gli diventa insopportabile, l’uomo si rivolge a un maestro zen e gli chiede un consiglio.
“La sua prima moglie è diventata un fantasma ed è a conoscenza di tutto ciò che lei fa,” gli spiegò il maestro. “Qualunque cosa lei faccia o dica, ogni suo gesto nei confronti della donna che ama, il fantasma lo sa. Deve essere perciò uno spirito sapientissimo e lei dovrebbe in realtà esserne meravigliato. La prossima volta che appare, faccia un patto con lui: gli dica che è molto bene informato e che non si può nascondergli nulla, ma che lei romperà il suo fidanzamento e non si risposerà solo se risponderà a una domanda.”
“Che domanda devo porgli?” chiese l’uomo.
Il maestro rispose: “Prenda una bella manciata di fagioli e gli chieda se saprebbe dirne il numero esatto. Se non saprà rispondere, lei avrà la certezza che si tratta di un parto della sua fantasia e non sarà più disturbato.”
Quando la notte successiva il fantasma della moglie si ripresentò, egli lo lusingò facendo le lodi della sua sapienza.
“Infatti,” rispose il fantasma, “so anche che oggi sei andato da un maestro zen.”
“E allora, visto che sai tante cose,” ribatté l’uomo, “dimmi quanti fagioli ho in mano.”
In quello stesso istante non ci fu più alcun fantasma a rispondere a questa domanda .
È proprio un cortocircuito del genere che io avevo in mente quando più sopra, facendo riferimento alla necessità di affrontare e trattare un simile problema solo mentalmente, dicevo che ogni verifica pratica può pregiudicarne il buon esito. Se la vostra disperazione e l’insonnia dovessero però spingervi ad andare da un moderno equivalente del maestro zen, andate almeno da uno che non vi consigli siffatte soluzioni. Consultate invece un epigono della moglie di Lot, uno che sia disposto a fare con voi il gioco n° 2 col passato , mentre vi guida tra le prime esperienze della vostra infanzia, nella ricerca praticamente infinita delle cause del problema.
Gli elefanti scacciati
Abbiamo visto allora come si può sviluppare la capacità di non far sapere alla mano destra quello che fa la sinistra. Dobbiamo adesso parlare dell’esatto opposto: non più della creazione del problema, ma di come si fa a non affrontarlo, allo scopo di renderlo eterno.
Il fondamentale modello ci è fornito dalla storiella dell’uomo che batteva le mani ogni dieci secondi. Interrogato sul perché di questo strano comportamento, rispose: “Per scacciare gli elefanti.”
“Elefanti? Ma qui non ci sono elefanti!”
E lui: “Appunto.”
La morale della storia è che rifiutare o scansare una situazione temuta, un problema, da un lato sembra essere la soluzione più logica, dall’altro però assicura il persistere del problema. E il suo valore per noi consiste proprio in questo. Per essere ancora più chiari facciamo un altro esempio. Se a un cavallo, attraverso una lastra di metallo stesa sul pavimento della stalla, si fa sentire una scossa elettrica in uno zoccolo, preceduta immediatamente da un segnale acustico, l’animale stabilirà rapidamente tra le due percezioni un’apparente connessione causale. Ciò significa che ogni qualvolta il cavallo udrà il segnale, alzerà lo zoccolo per evitare la scossa. Una volta stabilita questa associazione tra segnale e scossa, quest’ultima non sarà più necessaria: anche il solo segnale provocherà l’alzata di zoccolo. E ognuno di questi gesti rafforzerà nell’animale (così almeno si suppone) la “convinzione” di aver così evitato con successo il doloroso pericolo. Ciò che l’animale non sa e che in questo modo neppure può scoprire è che già da tempo il pericolo non sussiste *più*.
Come vedete, non si tratta di una banale superstizione. Gli atti di superstizione sono notoriamente inattendibili; sull’efficacia del nostro metodo, al contrario, l’aspirante all’infelicità può tranquillamente fare affidamento. L’applicazione della tecnica, poi, è molto più semplice di quanto in un primo momento possa sembrare. In sostanza si tratta di perseverare coerentemente nel sano buon senso, e cosa potrebbe esserci di più sensato?
Non c’è alcun dubbio che molte delle nostre azioni più consuete comportino un elemento di rischio. Quanti sono i pericoli che si devono accettare? Un minimo, a essere ragionevoli, oppure anche nessuno. Ma pure ai più temerari il pugilato o il deltaplano appaiono troppo rischiosi. Andare in auto? Pensate soltanto a quante persone muoiono ogni giorno in incidenti automobilistici, oppure rimangono invalide. Anche andare a piedi comporta molti rischi, che presto si rivelano allo sguardo indagatore della ragione. Borsaioli, gas di scarico, crolli di edifici, scontri a fuoco tra rapinatori di banca e polizia, frammenti incandescenti di sonde spaziali americane o sovietiche… La lista potrebbe continuare all’infinito e solo un pazzo si esporrebbe a questi pericoli senza riflettere. Meglio rimanere a casa. Ma anche qui la sicurezza è solo relativa. Scale, insidie del bagno, pavimenti sdrucciolevoli oppure pieghe del tappeto, o semplicemente coltelli, forchette, forbici, per non parlare di gas, acqua calda ed elettricità. L’unica soluzione ragionevole sembra essere quella di non alzarsi affatto dal letto al mattino. Ma quale riparo offre il letto contro i terremoti? E se poi la prolungata permanenza a letto provoca piaghe da decubito?
Certo, sto esagerando. Solo pochi grandissimi esperti giungono a essere tanto assennati da rendersi conto di tutti i pericoli immaginabili, cominciando poi a evitarli, compresi inquinamento dell’aria e dell’acqua potabile, colesterolo, trigliceri-di, sostanze cancerogene negli alimenti e centinaia di altri pericoli e veleni.
L’uomo medio solitamente non giunge a una visione razionale così totalizzante, e quindi neppure a evitare ogni pericolo. Noi meno dotati dobbiamo perlopiù limitarci a dei successi parziali, che tuttavia possono essere del tutto sufficienti. Essi consistono nell’applicazione scrupolosa del sano buon senso a un problema settoriale: con i coltelli ci si può ferire, quindi meglio evitarli; le maniglie delle porte sono letteralmente coperte di batteri. Può capitare che nel bel mezzo di un concerto sinfonico si debba improvvisamente andare in toilette; oppure che, controllando di nuovo se la porta è chiusa, la si apra inavvertitamente. La persona assennata evita perciò i coltelli affilati, apre le porte con il gomito, non va ai concerti e controlla cinque volte se la porta è veramente chiusa a chiave. A condizione però che un po’ alla volta non si perda di vista il problema. La storia seguente ci fa vedere come si fa a evitare questa possibilità.
Una vecchia zitella che abita in riva al fiume chiama la polizia per avvertirla che, davanti a casa sua, alcuni ragazzi fanno il bagno nudi. L’ispettore manda sul posto uno dei suoi uomini, che ordina ai ragazzacci di andare a nuotare più in là, dove non ci sono più case. Il giorno seguente la donna telefona di nuovo: i ragazzi si vedono ancora. Il poliziotto torna e li fa allontanare ancora di più. Dopo un po’ l’ispettore è nuovamente chiamato dall’indignata signora, che si lamenta: “Dalla finestra della mia soffitta li posso vedere ancora col cannocchiale! ”
A questo punto ci si può chiedere: cosa farebbe la signora se i ragazzi scomparissero finalmente dalla sua visuale? Forse comincerebbe a fare lunghe passeggiate lungo il fiume, forse le basterebbe sapere che da qualche partequalcuno fa il bagno nudo. Una cosa sembra certa: l’idea la preoccuperà ancora. E la cosa importante, in una idea così scrupolosamente coltivata, è che essa può determinare la propria realtà. Di questo fenomeno dobbiamo adesso occuparci.
Profezie che si realizzano da sé
Il vostro oroscopo nel giornale di oggi vi mette in guardia (e con voi altri 300 milioni di individui nati sotto lo stesso segno) circa un possibile incidente. Effettivamente poi vi capita qualcosa. L’astrologia è quindi credibile.
Oppure no? Siete sicuri che l’incidente vi sarebbe capitato lo stesso anche se nonaveste letto l’oroscopo? O anche se foste convinti veramente che l’astrologia è una spudorata assurdità? A posteriori, ovviamente, non potete saperlo.
Si deve al filosofo Karl Popper l’interessante idea secondo cui, per esprimerci semplicemente, la terribile profezia che Edipo apprese dall’oracolo si avverò proprio perché egli la conosceva e la fuggiva. Proprio ciò che egli fece per evitarla ne determinò l’avverarsi.
Qui avremmo dunque a che fare con un ulteriore effetto del tentativo di scansare un pericolo, cioè con la sua capacità di provocare, in determinate circostanze, proprio ciò che si cerca di evitare. Di quali circostanze si tratta? In primo luogo, deve esserci una predizione, nel senso più ampio del termine, dunque una qualsiasi aspettativa, preoccupazione, convinzione o semplicemente un sospetto, che le cose andranno così e non altrimenti. Bisogna aggiungere che tale aspettativa può essere provocata o dall’esterno, magari da altre persone, oppure da una qualche convinzione interiore. In secondo luogo, l’aspettativa deve essere vissuta non come semplice attesa, bensì come una realtà incombente, per evitare la quale devono essere prese immediate contromisure. In terzo luogo, la supposizione è tanto più convincente, quante più persone la condividono, oppure quante di meno sono le supposizioni, già comprovate dal corso delle cose, a cui essa contraddice.
Così, per esempio, è sufficiente la supposizione — non importa se fondata o infondata — che gli altri sussurrino sul nostro conto e che di nascosto si prendano gioco di noi. Di fronte a questo “fatto”, il sano buon senso consiglia di non fidarsi del prossimo e, poiché il tutto avviene sotto il velo bucherellato della segretezza, di fare attenzione e di tener conto anche dei minimi indizi. E allora è solo questione di tempo, perché prima o poi li si potrà sorprendere mentre sussurrano e sorridono di nascosto, oppure mentre si scambiano segrete strizzate d’occhio e reciproci cenni col capo. La profezia si sarà avverata.
Tuttavia, questo meccanismo agisce perfettamente solo quando non vi rendete conto che siete voi a farlo funzionare. La cosa però non è affatto difficile, come dovreste aver imparato dal capitolo precedente. Inoltre, se la situazione va avanti da un pezzo, è difficile stabilire (e comunque non è affatto essenziale) quale sia il primo anello della catena: il vostro atteggiamento ridicolo e diffidente nei confronti degli altri, oppure il comportamento sospetto di questi ultimi.
Le profezie che si realizzano ‘da sé hanno un effetto addirittura magico, “realmente” creativo, e sono quindi per noi molto importanti. Esse trovano abitualmente il loro posto non soltanto nel repertorio di ogni aspirante all’infelicità, bensì anche nel più ampio contesto sociale. A una minoranza viene impedito, per esempio, l’accesso a determinate fonti di guadagno (agricoltura o artigianato, mettiamo), perché secondo i più queste persone sono pigre, avide di denaro e soprattutto “estranee”; eccoli allora costretti a diventare rigattieri, contrabbandieri, usurai e simili, ciò che conferma quindi “palesemente” la sprezzante opinione della maggioranza. Quanti più segnali di stop vengono installati dalla polizia, tanto maggiore sarà il numero dei contravventori, ciò che richiederà “necessariamente” l’installazione di nuovi segnali. Quanto più una nazione si sente minacciata dalle nazioni vicine, tanto più aumenterà il proprio armamento difensivo, e tanto più queste riterranno che armarsi sia l’imperativo del momento. Lo scoppio della guerra (lungamente atteso) è allora soltanto una questione di tempo. Quanto più in un paese vengono aumentate le tasse per compensare l’evasione fiscale dei contribuenti, ritenuti ovviamente disonesti, tanto più vengono indotti a questo reato anche i cittadini onesti. Ogni previsione circa l’imminente scarsità o rincaro di una merce spingerà, se viene creduta da un numero sufficientemente grande di persone, all’accaparramento e quindi alla scarsità o al rincaro della merce, indipendentemente dalla “reale” attendibilità della previsione.
La profezia dell’evento porta all’avverarsi della profezia. La sola condizione è che ci si profetizzi o ci si faccia profetizzare qualcosa, e che la si ritenga un fatto imminente e di forza maggiore. In questo modo si arriva proprio là dove non si voleva arrivare. Ma la persona esperta sa come si può evitare di giungervi. Questo sarà il prossimo argomento.
Attenzione all’arrivare
It is better to travel hopefully than to arrive. Così R.L. Stevenson cita la saggezza di un proverbio giapponese. Tradotto letteralmente significa: Meglio dell’arrivare, è il viaggiare pieni di speranza; tradotto invece a senso: Nella partenza sta la felicità, non nella meta.
I giapponesi non sono naturalmente gli unici a vedere con sospetto l’arrivare. Già Lao Tze raccomandava di scordare l’opera non appena terminata. A tale proposito vengono in mente anche George Bernard Shaw e il suo famoso aforisma, spesso plagiato: “Nella vita esistono due tragedie. La prima è la mancata realizzazione di un intimo desiderio, l’altra è la sua realizzazione. ” Il Seduttore di Hermann Hesse così implora l’incarnazione del suo desiderio: “Resisti, bella donna, rendi più severe le tue vesti! Incanta, tormenta — ma non concederti a me! “, perché egli sa “che ogni realtà annienta il sogno”. Meno poeticamente, ma con più ricchezza di dettagli, si è interessato a questo problema Alfred Adler, un contemporaneo di Hesse. La sua opera, che soltanto ora viene riscoperta, si occupa approfonditamente anche dello stile di vita dell’eterno viaggiatore che per prudenza preferisce non arrivare mai.
Traendo liberamente spunto da Adler, si può dire che le regole di questo gioco con il futuro sono all’incirca le seguenti: arrivare, che letteralmente e metaforicamente significa raggiungere una meta, vale come importante criterio di misura per il successo, il potere, l’approvazione e il rispetto per se stesso. Viceversa, l’insuccesso o l’indolente tirare avanti sono un segno di stupidità, pigrizia, irresponsabilità o viltà. Ma la strada del successo è faticosa, sia perché è necessario applicarsi molto, sia perché anche sforzandosi intensamente si può fallire. Piuttosto che impegnarsi in una “politica dei piccoli passi”, perseguendo scopi ragionevoli e raggiungibili, conviene scegliersi una meta straordinariamente elevata.
Ai miei lettori dovrebbero risultarne evidenti i vantaggi. L’aspirazione faustiana, la ricerca del Fiore Azzurro, l’ascetica rinuncia alle più basse soddisfazioni della vita godono di un grande prestigio sociale e fanno battere più forte i cuori di madre. Ma, soprattutto, se la meta è molto lontana anche il più sciocco capisce che la strada è lunga e difficile, e che i preparativi di viaggio sono complessi e richiedono molto tempo. Nessuno oserebbe rimproverare che non ci si è ancora messi in viaggio, e tantomeno arrischierebbe una critica nel caso in Cui, una volta partiti, si perdesse la strada e si girasse in tondo, oppure si facessero lunghe soste. Al contrario, esistono eroici esempi di smarrimento nel labirinto e di fallimento in imprese sovrumane, al cui fulgore si riluce un po’.
Ma questo non è tutto. Come già sottintendono le citazioni iniziali, raggiungere le mete anche più elevate comporta un ulteriore pericolo: il “dopo sbornia”. L’esperto in infelicità conosce bene questo pericolo, non importa se consciamente o inconsciamente. Lo scopo non ancora raggiunto — così sembra volere il creatore del nostro mondo — è più desiderabile, romantico e luminoso di quanto possa esserlo quello a cui si è già arrivati. Non dobbiamo farci illusioni. L’incanto della luna di miele finisce prima di quanto si creda; all’arrivo nella lontana ed esotica città, il tassista cerca di imbrogliarci; sostenuta con successo una prova decisiva, sopravvengono nuove complicazioni e inattese responsabilità; e, come è noto, anche per la serenità della vecchiaia dopo il pensionamento le cose non vanno diversamente.
Sciocchezze, diranno quelli tra noi che hanno il sangue caldo, chi aspira a ideali così limitati e anemici merita alla fine di rimanere deluso. Non esiste forse l’entusiastica esaltazione che scaricandosi supera i propri limiti? Oppure quella sacra collera per un’ingiustizia subita che ci spinge all’inebriante gesto della vendetta e della rappresaglia, restaurando così l’universale giustizia? Chi potrebbe in questo casoparlare ancora di “dopo-sbornia”?
Purtroppo, però, anche qui solo pochissimi sembra ci riescano. Chi non ne è convinto legga ciò che una persona esperta come George Orwell ha da dire sul tema “La vendetta è amara”. Si tratta di alcune riflessioni di così profonda onestà e conciliante saggezza, che in una guida all’infelicità non meriterebbero proprio spazio alcuno. Ma spero che il lettore mi scuserà se io ne faccio menzione lo stesso, proprio perché si addicono all’argomento.
Come corrispondente di guerra, nel 1945 Orwell visitò anche un campo di prigionia per criminali di guerra. In quell’occasione vide un giovane ebreo, che conduceva gli interrogatori, sferrare un tremendo calcio a un detenuto che aveva avuto un grado elevato nella sezione politica delle SS, e proprio a un piede fratturato e reso deforme dal gonfiore.
Quasi sicuramente era stato al comando di un campo di concentramento e aveva ordinato torture e impiccagioni. In poche parole, egli rappresentava tutto ciò contro cui avevamo combattuto negli ultimi cinque anni…
È assurdo rimproverare un ebreo tedesco o austriaco perché si vendica sui nazisti per le sofferenze subite. Sa il cielo tutte le cose di cui quest’uomo avrebbe voluto vendicarsi; con ogni probabilità l’intera sua famiglia era stata sterminata. In fondo, anche un violento calcio dato con freddezza a un prigioniero è cosa insignificante, paragonata alle atrocità commesse dal regime hitleriano. Tuttavia, questa scena e molte altre a cui ho assistito in Germania mi hanno ripetutamente reso evidente che l’intero concetto di ritorsione e castigo è un infantile vaneggiamento. A rigor di termini, non esiste affatto qualcosa come la ritorsione o la vendetta. La vendetta è un’azione che si vorrebbe compiere quando e proprio perché si è impotenti: non appena questo sentimento di impotenza scompare, svanisce anche il desiderio di vendicarsi.
Chi, nel 1940, non avrebbe fatto salti di gioia all’idea di vedere gli ufficiali delle SS presi a calci e umiliati? Eppure, appena diviene possibile, ciò appare soltanto patetico e ripugnante.
Sempre nello stesso saggio, Orwell racconta ancora di come egli sia entrato a Stoccarda, conquistata da poche ore, assieme a un corrispondente belga. Quest’ultimo — chi può dargli torto — aveva nei confronti dei tedeschi un atteggiamento di rifiuto più duro di un inglese o di un americano.
Dovemmo passare sopra una stretta passerella, che i tedeschi evidentemente avevano difeso con tenacia. Un soldato morto era disteso vicino ai gradini d’accesso. Aveva il volto cereo…
Quando gli passammo davanti, il belga girò lo sguardo. Giunti quasi alla fine del ponte, mi confessò che quello era il primo morto che aveva visto in vita sua. Credo avesse circa trentacinque anni ed era stato addetto alla propaganda radiofonica di guerra per quattro anni.
Quest’unica esperienza dell'”arrivare” fu decisiva per il belga. Il suo comportamento con i “boches” mutò radicalmente.
Alla sua partenza, diede ai tedeschi presso i quali eravamo alloggiati ciò che restava del caffè che avevamo portato con noi. Solo una settimana prima, l’idea di regalare del caffè a un “boche” l’avrebbe probabilmente scandalizzato. Il suo atteggiamento emotivo, così mi disse, cambiò dopo aver visto quel “pauvre mort” ai piedi del ponte: di colpo gli fu chiaro il significato della guerra. Eppure, se per combinazione fossimo entrati in città per un’altra strada, forse gli sarebbe stato risparmiato perfino lo spettacolo di uno dei circa venti milioni di morti causati dalla guerra.
Ma torniamo al nostro argomento. Se quindi neppure la vendetta è dolce, quanto meno lo sarà l’arrivare a una meta che si presume felice? Perciò fate attenzione all’arrivare (e, sia detto per inciso, perché credete dunque che Thomas More abbia chiamato la sua lontana isola della felicità Utopia, che letteralmente significa “in nessun luogo”?).
Se tu mi amassi veramente, mangeresti volentieri aglio
“L’enfer, c’est les autres” è la battuta conclusiva del dramma di Sartre Huis clos. Se voi, cari lettori, avete l’impressione che questo argomento non sia stato finora neanche approssimativamente toccato e che ci siamo occupati principalmente solo dell’infelicità, per così dire, autosufficiente, ebbene avete proprio ragione. È tempo di rivolgere la nostra attenzione all’inferno barocco dei rapporti umani.
Cerchiamo di affrontare l’argomento con metodo. Già 70 anni fa, Bertrand Russell affermava che bisogna distinguere nettamente le proposizioni riguardanti cose dalle proposizioni che esprimono una relazione. “Questa mela è rossa” è una proposizione riguardante una qualità di questa mela. “Questa mela è più grossa di quella” è una proposizione che riguarda la relazione tra le due mele e quindi non ha nulla a che fare con l’una o con l’altra mela presa in se stessa. La qualità dell'”essere più grande” non appartiene a nessuna delle due mele, e sarebbe una pura assurdità volerla attribuire a una di esse.
Questa importante distinzione venne più tardi ripresa e ulteriormente sviluppata dall’antropologo e studioso dell’informazione Gregory Bateson. Egli stabilì che in ogni comunicazione sono presenti sempre entrambe le proposizioni, o in altre parole, che esiste in essa un livello oggettivo e uno relazionale. Con ciò egli ci ha aiutato a comprendere meglio come si possa giungere in breve tempo ad avere delle difficoltà con il partner — chiunque esso sia, ma quanto più intimo tanto meglio. Supponiamo che una donna chieda al marito: “Questa minestra l’ho fatta in una maniera nuova. Ti piace? ” Se gli piace può rispondere senz’altro: “Sì”, e lei ne sarà contenta. Se invece non gli piace e non teme di deludere la moglie, può dire: “No.” Problematica è però la situazione, statisticamente più frequente, in cui la minestra è disgustosa, ma egli non vuole offendere la moglie. A livello oggettivo (quello che si riferisce cioè all’oggettominestra) il marito dovrebbe dire “No”; a livello relazionale dovrebbe dire “Sì”, per non ferirla. Cosa dirà dunque? La sua risposta non può essere “Sì” e “No”, perché la parola “Ni” esiste soltanto come battuta scherzosa. Egli cercherà così di trarsi fuori dai guai in qualche modo, magari dicendo: “Ha un sapore interessante”, nella speranza che la moglie *capisca*. Ma le probabilità sono minime. Conviene piuttosto seguire l’esempio di un uomo sposato di mia conoscenza, la cui moglie, al ritorno nella nuova casa dalla luna di miele, gli mise sul tavolo una grande scatola di Corn Flakes come prima colazione, supponendo in buona fede (a livello relazionale) ma erroneamente (a livello oggettivo) che li avrebbe mangiati volentieri. Non voleva ferirla e si propose, se proprio bisognava, di mandare giù quella roba e poi di pregarla, una volta finita la scatola, di non comprarne un’altra. Come una brava moglie, però, ella prese nota e prima ancora che la scatola finisse ne aveva già presa un’altra. Oggi, 16 anni dopo, ha abbandonato la speranza di farle capire con tatto che lui detesta i Corn Flakes. La reazione della moglie sarebbe immaginabile.
Detto tra parentesi, il tedesco parlato è da questo punto di vista meno ambiguo, per esempio, dell’inglese o dell’italiano. “Would you like to take me to my plane tomorrow morning?” (chi, infatti, andrebbe volentieri all’aeroporto alle sei del mattino?), oppure “Ti dispiacerebbe far la cena stasera? (ovviamente non ho nessuna voglia di farmi da mangiare quando torno a casa dal lavoro), sono esempi classici. Certo, so che la risposta dovrebbe essere data separatamente ai due :
livelli di comunicazione, per esempio: “No, andare all’aeroporto non mi attira per niente; ma faccio volentieri il favore di accompagnarti.”
Dovreste ormai immaginare l’importanza che : questo modello di comunicazione ha per il nostro argomento. Infatti, anche se il partner riesce a rispondere nel modo che abbiamo visto (e chi si esprime così artificiosamente?), l’altro potrebbe [ problematizzare la situazione accettando il favore solo se il partner lo accompagna veramente volentieri. E per quanto si rigirino e si contorcano, essi non riusciranno a evitare le insidie che il mescolamento dei due livelli comporta. Alla fine di questa inutile discussione saranno entrambi furenti. ” Come vedete, la ricetta è relativamente semplice, l non appena si sia compresa l’importante differenza tra questi due livelli di comunicazione e quindi \ si sappia scambiarli, non per errore, ma di proposito. Uno degli esempi più edificanti che io cono sca è quello, menzionato nel titolo del capitolo, » della confusione tra aglio e amore.
Il motivo per cui questa confusione riesce facile anche al principiante risiede nella difficoltà che le proposizioni relazionali comportano. È abbastanza agevole parlare di oggetti, aglio compreso — ma di amore? Cercate per una volta di farlo seriamente. Se spiegare una barzelletta ne toglie l’humor, a maggior ragione una lunga chiacchierata sulle forme apparentemente ovvie dei rapporti umani quasi sicuramente ci porta a grosse complicazioni. Il momento migliore per una discussione del genere è la sera tardi. Alle tre del mattino le lunghe chiacchiere avranno stravolto anche l’argomento inizialmente più semplice e i due partner saranno al limite della pazienza, incapaci anche soltanto di dormire.
Quale perfezionamento di questa tecnica, si possono considerare una certa maniera di fare domande e una particolare categoria di richieste. Uno degli esempi migliori potrebbe essere questo: ” Perché sei arrabbiato con me?”, nel caso in cui l’interrogato, per quanto gli costa, non sia arrabbiato né con chi pone la domanda, né con nessun altro. Tuttavia, la domanda sottintende che l’interrogante sappia meglio dell’interrogato ciò che a quest’ultimo passa per la testa, e quindi che la risposta “Ma io non sono affatto arrabbiato con te” sia semplicemente falsa. Questa tecnica è anche conosciuta con il nome di lettura del pensiero o chiaroveggenza ed è così efficace perché si può trovar da discutere su uno stato d’animo e sulle sue conseguenze fino al giudizio universale, e perché la maggior parte della gente va subito in collera quando si sente attribuire un sentimento negativo.
L’altro espediente consiste nel fare al proprio partner dei rimproveri tanto violenti quanto vaghi. Se poi egli vuole sapere esattamente quello che intendete dire, potete far scattare completamente la trappola con una successiva allusione: “Se tu non fossi la persona che sei, non avresti neppure bisogno di chiedermelo. Il fatto che tu non sappia neanche di cosa parlo dimostra chiaramente che tipo tu sei.” E à proposdi mente: questo metodo è utilizzato da moltissimo tempo con i cosiddetti malati di mente, e con grande successo. Nei rari casi in cui uno di essi osa chiedere precise informazioni su quello che gli altri pensano della sua pazzia, la sua richiesta viene presentata come ulteriore prova della sua alienazione: “Se tu non fossi pazzo, sapresti che cosa pensiamo.” Una risposta di questo tipo stupisce sia l’incompetente che l’esperto, perché rivela una dose notevole di genialità: il tentativo di chiarimento viene immediatamente interpretato come il suo contrario. L’altro passa dunque per pazzo fintantoché accetta in silenzio la definizione relazionale “Noi siamo normali, tu sei pazzo”, e pazzo viene ancora giudicato nel caso in cui la metta in discussione. Dopo questo fallimentare excursus nell’umanità circostante, egli potrà soltanto o strapparsi i capelli con rabbia impotente, oppure ricadere nel suo silenzio. Ma anche così dimostrerà la sua pazzia e che gli altri hanno sempre avuto ragione. Lewis Carroll descrisse molto bene questo meccanismo in Attraverso lo specchio. La Regina Rossa e la Regina Bianca accusano Alice di voler negare qualcosa e attribuiscono ciò al suo stato mentale.
“Sono certa che non volevo dire…” stava cominciando Alice, ma la Regina Rossa la interruppe con impazienza.
“Proprio questo disapprovo! Avresti dovuto voler dire! A che credi che serva una bambina che non vuol dire niente? Anche uno scherzo deve avere un significato… e una bambina è più importante di uno scherzo, almeno spero. Ecco una cosa che non potresti negare neanche con tutt’e due le mani.”
“Io non nego le cose con le mani,” obiettò Alice.
“E chi l’ha detto?” disse la Regina Rossa. “Io ho detto che se ci provassi non potresti.”
“È in quello stato d’animo,” disse la Regina Bianca, “di quando si vuole negare qualcosa… ma non si sa cosa! ”
“Ha un caratteraccio odioso,” osservò la Regina Rossa; e si fece un silenzio carico di disagio che durò un minuto o due
[1].
Negli istituti che si ritengono competenti nel trattamento di questi stati mentali, una simile tattica viene usata con successo. Si lascia libero il cosiddetto paziente, per esempio, di decidere autonomamente se vuole partecipare o no alle sedute di gruppo. Se ringraziando rifiuta, viene premurosamente ma con fermezza invitato a esporre i suoi motivi. Le sue giustificazioni saranno tutto sommato indifferenti, perché si tratta in ogni caso di una manifestazione di resistenza, come tale patologica. L’unica alternativa possibile è quindi la partecipazione alla terapia di gruppo, ma non può far vedere che per lui non esiste altra possibilità, perché considerare così la propria situazione è ancor sempre un segno di resistenza e irragionevolezza. Egli deve voler partecipare “spontaneamente”, ma così facendo riconosce di essere ammalato e di aver bisogno della terapia. Nei grandi sistemi sociali aventi caratteristiche manicomiali, questo metodo è noto con il nome reazionario e nient’affatto rispettoso di lavaggio del cervello. Ma questi accenni esulano dal modesto campo del presente lavoro. Ritorniamo perciò al nostro argomento.
Un efficace fattore di disturbo nelle relazioni consiste dunque nel concedere al partner solo due possibilità di scelta e, non appena ne scelga una, nell’accusarlo di non aver scelto l’altra. Nello studio delle comunicazioni questo meccanismo è noto sotto il nome di illusioni delle alternative e il suo schema fondamentale è questo: se egli fa A, avrebbe dovuto fare B, e se fa B, avrebbe dovuto fare A. Un esempio particolarmente chiaro si trova nella già citata guida di Dan Greenburg alle madri ebraiche:
Regalate a vostro figlio Marvin due camicie sportive Quando ne indossa una per la prima volta, guardatelo con aria avvilita e dite: “L’altra non ti piace?”
Senza dubbio, anche la maggior parte dei giovani sono degli innati specialisti in questo campo e riescono facilmente a ritorcere le accuse. Nel vago periodo compreso tra l’infanzia e l’età adulta, riesce loro facile esigere dai genitori quel riconoscimento e quelle libertà che spettano a un giovane adulto. Ma quando si tratta di doveri sanno sempre nascondersi dietro il pretesto di essere troppo giovani. E quando il padre o la madre ammettono a denti stretti che era meglio non avere figli, passano facilmente per dei genitori snaturati. Viene in mente quella magnifica canzone del cabarettista viennese Gerhard Bronner sui vitelloni in motocicletta: “Sebbene non sappia dove sto andando, so che ci arriverò molto rapidamente.”
Psichiatri e psicologi non sanno ancora spiegare perché abbiamo la tendenza a farci ingannare dal meccanismo dell’illusione delle alternative, mentre non abbiamo solitamente alcuna difficoltà a rifiutare sia l’una che l’altra alternativa quando esse ci vengono presentate separatamente, una alla volta. Bisogna imparare a utilizzare questo tipo di meccanismo se ci si vuole dedicare alla complicazione dei rapporti umani. Ecco a tale scopo alcuni facili esercizi per il principiante.
Questi sono soltanto un paio di semplici esempi. Gli aspiranti all’infelicità veramente dotati possono utilizzare questa tecnica fino a creare complicazioni bizantine, spingendo infine il partner a chiedersi se per caso non sia diventato pazzo. In ogni caso, si troverà in uno stato quasi di confusione mentale. Con questa tecnica non solo si dimostrerà la propria rettitudine e normalità, ma si spingerà pure la disperazione fino all’estremo limite.
È poi utile anche l’esigenza di una scala di rassicurazioni, ognuna delle quali, pur essendo stata accettata, viene subito messa in discussione al gradino successivo. Se ne possono trovare esempi magistrali nel già citato libro di Laing, Nodi . Qui la parola chiave veramente svolge un ruolo decisivo. Ecco un tipico esempio:
“Do you love me?” “Yes. ” “Really?” “Yes, really!” “But really really?”
Seguono probabilmente delle grida selvagge. E già che stiamo parlando di Laing, conviene menzionare un’ulteriore tattica.
Nell’introduzione ho sostenuto che la felicità è difficile da definire, soprattutto da definire positivamente. Questo però non ha impedito ai moralisti di ascrivere alla felicità un significato negativo. È risaputo che il motto non ufficiale del puritanesimo suona così: “Puoi fare quello che vuoi, basta che non sia piacevole. ” La questione è stata posta in maniera sostanzialmente uguale da un partecipante al già menzionato dibattito sulla felicità: “Io credo che non sia lecito parlare di felicità nell’attuale situazione mondiale” . In quale epoca storica la situazione mondiale attuale non fu o non sarà la situazione mondiale attuale, egli non dice. Ammetto che sia difficile rallegrarsi anche di un solo bicchiere d’acqua fresca, quando nello stesso istante mezzo milione di civili innocenti sono ridotti alla sete a Beirut Ovest. Ma anche se un giorno nel mondo intero scoppiasse la felicità, il pessimismo moralistico non si darebbe per vinto. Rimane pur sempre la ricetta di Laing, secondo la quale potrà rimproverare l’ingenuo e allegro partner: “Come puoi essere così allegro, sapendo che Cristo è morto sulla croce? Si è divertito Lui?”
Il resto è un imbarazzato silenzio.
“Sii spontaneo!”
Tutte le variazioni sul tema “Amore e aglio” precedentemente esposte sono delle scaramucce in confronto alla forza dirompente insita nell’esortazione, falsamente innocua, a comportarsi spontaneamente. Tra tutte le complicazioni, i dilemmi e le insidie che possono esistere nella struttura della comunicazione umana, l’assurdità del cosiddetto “Sii spontaneo!” è certamente la più diffusa. Si tratta di un vero e proprio paradosso, che soddisfa tutte le regole della logica formale.
Nell’atmosfera cristallina dell’olimpo logico, costrizione e spontaneità (cioè quanto liberamente e senza influssi esterni proviene dalla propria interiorità) sono inconciliabili. Essere spontanei ubbidendo a un ordine è tanto impossibile quanto dimenticare intenzionalmente qualcosa o scegliere di dormire più profondamente. O si agisce spontaneamente, quindi di propria iniziativa, oppure si esegue un ordine e in questo caso non c’è alcuna spontaneità. Da un punto di vista strettamente logico non si può fare contemporaneamente le due cose.
Ma cosa ci importa della logica? Se posso scrivere “Sii spontaneo!”, posso anche dirlo, che sia logico o no. La carta e le onde acustiche permettono ogni cosa. Ma il destinatario della esortazione probabilmente no. Infatti, che cosa può fare adesso?
Chi conosce il romanzo di John Fowles II collezionista avrà senz’altro capito dove voglio arrivare. Il collezionista è un giovane che inizialmente limita la sua passione alle farfalle, di cui ammira la bellezza tenendole infilzate in uno spillo. Non possono certo volare via. Le sue sventure cominciano solo quando si innamora di una bella studentessa, Miranda, e usa con lei la stessa tecnica (nel senso della ricetta “Ancora lo stesso”. Poiché non è particolarmente bello e neppure ha una grande opinione di sé, si convince che Miranda non si deciderà spontaneamente per lui. Così la rapisce e invece degli spilli utilizza una solitaria casa di campagna, in cui la tiene prigioniera. Sullo sfondo di questa pura costrizione, egli spera e si aspetta che lei, nel corso della sempre più insopportabile prigionia, si innamori di lui. Solo un po’ alla volta gli si rivela l’inesorabile e disperata tragicità del suo paradossale “Sii spontanea!”, mediante il quale egli si è reso impossibile proprio ciò che voleva ottenere.
Una forzatura troppo “letteraria”? Va bene, prendiamo una situazione molto quotidiana, che non richiede alcuna particolare condizione per realizzarsi.
È l’abusato ma illuminante esempio di quella madre che pretende dal figlio non solo che egli faccia i propri compiti, ma che li faccia anche volentieri. Come si vede, la definizione del puritanesimo viene qui rovesciata. Quella era: È tuo dovere non fare nulla di piacevole; questa invece: Il tuo dovere deve farti piacere.
Che cosa si può fare dunque? — ho chiesto prima, ed è una domanda del tutto retorica, perché non c’è via d’uscita. Cosa può fare la moglie il cui marito esige non solo dei continui rapporti sessuali, ma anche che lei ne ricavi ogni volta piacere? Cosa si può fare trovandosi nei panni di quel ragazzo che deve fare volentieri i compiti? Si arriva alla conclusione che con se stessi o con il mondo c’è qualcosa che non va. Ma poiché nel contrasto con il mondo si ha quasi sempre la peggio, si è praticamente costretti a cercare la colpa in se stessi. Questo non vi convince ancora del tutto? Niente paura, è facile dissipare il vostro dubbio.
Provate semplicemente a immaginarvi di essere nati in una famiglia nella quale, per una ragione qualsiasi, la felicità sia un dovere. Più precisamente, una famiglia in cui i genitori hanno fatto proprio il principio che l’animo lieto del figlio è la più evidente riprova del loro successo pedagogico nei suoi confronti. E provate a essere di cattivo umore, oppure sfiniti, o ad aver paura della lezione di ginnastica, del dentista o del buio, o di non aver alcuna voglia di diventare boy scout. Secondo i vostri cari genitori non si tratta semplicemente di uno stato d’animo passeggero, di stanchezza, della tipica paura di un bambino o simili; è invece un’accusa muta, e quindi tanto più dura, di incapacità educativa rivolta a loro. E cominceranno a difendersi enumerandovi tutto quello che hanno fatto per voi e tutti i sacrifici, dicendo infine che non avete nessun motivo e alcun diritto di non essere felice.
Non pochi genitori sanno sfruttare magistralmente questo meccanismo, portandolo talvolta a ulteriori sviluppi. Dicono per esempio al figlio: “Va’ in camera tua e restaci finché non ti è tornato il buonumore.” La convinzione che viene qui espressa indirettamente, ma in maniera elegante e chiara, è che il figlio possa con un po’ di buona volontà e un piccolo sforzo riuscire a programmarsi uno stato d’animo allegro e, stimolando i nervi di certi muscoli facciali, a mostrare quel sorriso che lo reintegrerà come “lieto” fra i “lieti”.
Attraverso questa semplice tattica, la tristezza e la bassezza morale (soprattutto l’ingratitudine) vengono inestricabilmente mescolate assieme, come l’aglio e l’amore. Questa tattica è quindi molto importante per il nostro argomento. Essa è particolarmente adatta a far nascere nell’altro profondi sentimenti di colpa, i quali dal canto loro possono essere spiegati come sentimenti che egli non avrebbe se soltanto fosse una persona migliore. E se avesse la sfacciataggine di chiedere come si possa fare a dominare in questo modo i propri sentimenti, conviene ricorrere alla già nota affermazione, e cioè che una persona veramente buona dovrebbe saperlo da sé, senza aver bisogno di chiederlo (dicendo questo, è bene alzare le sopracciglia e guardarlo con tristezza).
Chi ha sostenuto con successo un simile addestramento è in grado di far nascere autonomamente in se stesso uno stato di depressione. È invece fatica sprecata voler risvegliare un tale sentimento di colpa in coloro che, da questo punto di vista, non sono addestrati. Si tratta di quelle persone insensibili che, al pari degli esperti in infelicità, conoscono certamente bene l’instabilità emotiva, ma sono anche convinti che l’occasionale tristezza è un momento inevitabile della vita quotidiana, che essa viene e va senza che nessuno sappia come e che, se non stasera, certo domani mattina sarà già scomparsa. Ciò che distingue la depressione da quest’ultima forma di tristezza è la disposizione a utilizzare autonomamente ciò che è stato introiet-tato nell’infanzia, rimproverandosi nello stesso tempo di non avere né il diritto né alcun motivo di essere triste. La sicura conseguenza è l’approfondimento e il prolungamento della depressione. E lo stesso risultato ottengono anche quelle persone che seguono la voce del sano buon senso e i suggerimenti del proprio cuore, consigliando per il meglio l’interessato, incoraggiandolo e convincendolo a fare uno sforzo. Così, la vittima non solo ha contribuito in maniera decisiva alla propria depressione, ma può sentirsi doppiamente colpevole perché non riesce a condividere il roseo e ottimistico atteggiamento che gli altri hanno nei confronti del mondo, deludendoli nelle loro buone intenzioni. Già Amleto conosceva perfettamente l’angosciosa differenza tra la visione del mondo del malinconico e quella di chi lo circonda, e inoltre sapeva utilizzarla in maniera eccellente per i propri scopi.
Io da qualche tempo, ma non so come, ho smarrito tutta l’allegria, abbandonato ogni occupazione; mi sono così appesantito d’umore che persino la bella architettura della terra mi sembra una sterile forma. E anche l’eccelso baldacchino del cielo, questo firmamento stupendo, questo tetto maestoso solcato da fuochi d’oro, debbo dirve-lo? non mi pare nient’altro che un pestilenziale ammasso di vapori. Che opera d’arte è l’uomo! Com’è nobile in virtù della ragione! Quali infinite facoltà possiede! Com’è pronto e ammirevole nella forma e nel movimento! Come somiglia a un angelo, per le azioni, e a un dio per la facoltà di discernere! È la bellezza del mondo e il paragone degli animali! Eppure per me non è che quintessenza di polvere. L’uomo non mi attrae….
Non ha alcuna importanza che il paradossale “Sii felice! ” lo si prescriva a se stessi o sia imposto dagli altri. È da notare poi che si tratta di una delle molte possibili variazioni sul tema fondamentale “Sii spontaneo!”. Come abbiamo visto, ogni comportamento spontaneo si presta praticamente a diventare materia prima per queste paradossali sofisticherie: la pretesa di ricordare o dimenticare spontaneamente; il desiderio di un regalo e la delusione provata nel riceverlo, “solo” perché si espresse questo desiderio; il tentativo di giungere a un’erezione o a un orgasmo con uno sforzo di volontà, che puntualmente rende inutile ogni tentativo; addormentarsi, perché si vuole assolutamente dormire; oppure l’impossibilità di amare, quando l’amore viene richiesto come una pratica obbligatoria.
Chi mi ama ha qualcosa che non va
Poiché stiamo parlando dell’amore, è opportuno fare una considerazione. Dostoevskij]’ faceva notare che la parola biblica “Ama il prossimo tuo come te stesso” va intesa all’inverso, cioè nel senso che si può amare il prossimo solo se si ama prima se stessi.
In maniera meno raffinata, ma assai più pregnante, Marx (Groucho, non Karl) espresse la stessa idea parecchi decenni dopo: “Non mi passerebbe neanche per la testa di iscrivermi a un club che sia disposto ad accettare tra i suoi membri uno come me.” Se avete voglia di sondare le profondità di questa battuta, allora siete pronti per quello che segue.
Essere amati è sempre qualcosa di misterioso. Non è consigliabile voler sapere troppo. Nel migliore dei casi l’altro non sa dirvi nulla; nel peggiore dei casi presenta come motivo ciò che non avete mai considerato come la vostra più affascinante qualità; per esempio la voglia che avete sulla spalla sinistra. Il silenzio, una volta ancora, è d’oro.
Ciò che possiamo ricavarne per il nostro argomento è ora più evidente. Non accettate con riconoscenza tutto quello che la vita vi offre attraverso il vostro partner (anche lui, chiaramente, degno d’amore). Fate lavorare il cervello. Chiedete a voi stessi, non a lui, perché vi ama. Egli deve pur avere un secondo fine qualsiasi. E certamente non lo rivelerà a voi.
L’amore umano è una cosa misteriosa di cui si sono occupati inutilmente spiriti ben più grandi di me e su cui si innalzano alcune delle più famose creazioni della letteratura universale. Consideriamo questa frase di Rousseau, tratta da una lettera a Madame d’Houdetot: “Se Voi sarete mia, io vi perderò — perché vi possiederei, proprio voi, colei che io stimo.” Meglio leggerla due volte. Ciò che Rousseau sembra voler dire è questo: chi mi si dona, proprio per questo, non merita più il mio amore. (Questa concezione, nobile soltanto in apparenza, è molto diffusa in un famoso paese dell’Europa meridionale: qui l’innamorato, essendosi convinto della propria passione, stringe d’assedio l’amata finché questa non gli si concede; appena la donna si è lasciata conquistare, viene da lui disprezzata, perché una donna onorata non avrebbe fatto “questo”. Nello stesso paese esiste anche il detto, ovviamente mai ammesso in pubblico, secondo cui “tutte le donne sono puttane, tranne mia madre: lei era una santa”. È chiaro: con la propria madre “questo” non si fa.)
Nella sua famosa opera L’essere e il nulla, Jean – Paul Sartre definisce l’amore come un inutile tentativo di possedere una libertà in quanto libertà. Scrive Sartre :
Ma, d’altra parte, (l’amante) non può essere soddisfatto di quella forma eminente di libertà che è l’impegno libero e volontario. Chi si accontenterebbe di un amore che si desse come pura fedeltà all’impegno preso? Chi accetterebbe di sentirsi dire: “Ti amo, perché mi sono liberamente impegnata ad amarti e perché non voglio contraddirmi: ti amo per fedeltà a me stessa”? Cosi l’amante chiede il giuramento e si irrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà come libertà non sia più libera.
Maggiori informazioni su queste singolari e insolubili complicazioni dell’amore (e su molte altre forme di comportamento apparentemente irrazionali), il lettore interessato le può trovare nel libro Ulysses and the Sirens , del filosofo norvegese Jon Elster. Per il bisogno di infelicità del principiante ciò che abbiamo detto dovrebbe bastare. I non principianti, invece, non possono sentirsi soddisfatti. Ma proprio da questo contesto possiamo ricavare ulteriori indicazioni, accessibili però soltanto ai Groucho Marx tra noi. È necessario che ci si ritenga immeritevoli di amore. In questo modo, colui che ama una tale persona viene subito discreditato, perché chi ama qualcuno che non merita amore ha qualcosa che non funziona nella sua vita interiore. Un difetto caratteriale come il masochismo, un legame nevrotico con una madre castrante, un’attrazione irresistibile e morbosa per ciò che è abietto: questi e simili saranno allora i motivi che spiegano l’amore verso una persona del genere, ed essi renderanno insopportabile l’amore (nella scelta della diagnosi più soddisfacente, è molto importante avere una certa conoscenza della psicologia o almeno partecipare a gruppi di autocoscienza) .
Viene allora smascherata la miseria non solo della persona amata, bensì anche dell’amante stesso e dell’amore in quanto tale. Che cosa si può desiderare di più ancora? Meglio di ogni altro autore a me noto, Laing ha descritto questa disperata situazione in Nodi; riportò integralmente la sua formulazione :
Io non rispetto me stesso
non posso rispettare nessuno che mi rispetti.
Posso rispettare solo qualcuno che non mi rispetti.
Io rispetto Jack perché non mi rispetta
Io disprezzo Tom perché non mi disprezza
Solo una persona disprezzabile
può rispettare qualcuno così disprezzabile come me
Non posso amare nessuno che io disprezzi
Poiché amo Jack
non posso credere che egli mi ami
Come potrebbe dimostrarmelo?
Solo a un primo sguardo un simile ragionamento può apparire assurdo, perché le conseguenze che si possono trarre da un simile atteggiamento sono fin troppo evidenti. Del resto, tutto questo non è stato ancora di ostacolo per nessuno; come scrive Shakespeare in un suo- sonetto: “È cosa che chiunque sa bene; ma nessuno sa bene / sottrarsi al cielo che conduce gli uomini in tale inferno.” Ci si innamori dunque, disperatamente: di una persona sposata, di un prete, di una stella del cinema o di una cantante d’opera. In questo modo si viaggerà fiduciosi e lieti, senza mai arrivare, e inoltre ci si risparmierà il disinganno nel dover constatare che l’altro è eventualmente del tutto disponibile a iniziare una relazione — cosa questa che gli farebbe perdere subito ogni attrattiva.
L’uomo sia nobile, soccorrevole e buono
Chi ama è naturalmente pronto ad aiutare l’essere amato. L’essere soccorrevoli, però, è oltremodo nobile e buono quando non esiste alcun particolare legame affettivo, per esempio nei confronti di un estraneo. L’aiuto disinteressato è un eccellente ideale e, secondo quel che si dice, trova in se stesso la propria ricompensa.
Ciò non ci deve assolutamente scoraggiare perché, come ogni altra buona azione, anche la disponibilità a porgere aiuto può soccombere al dubbio. L’abbiamo già visto a proposito dell’amore. Per far nascere dei dubbi sull’altruismo e sulla purezza di tale disponibilità ad aiutare gli altri, dobbiamo chiederci se per caso non abbiamo dei secondi fini. Considero tutto ciò come un versamento sul mio conto corrente in paradiso? Una maniera per impressionare gli altri? Per essere ammirato? Per costringere gli altri a dimostrarmi la loro gratitudine? O, più semplicemente, per curare il mio “dopo sbornia” spirituale? Come si vede, la forza del pensiero negativo non ha limiti e si sa che chi cerca trova. Per il puro, tutto è puro; invece il pessimista scopre dappertutto lo zampino del diavolo, il tallone d’Achille e tutto ciò che ci è descritto con metafore podologiche.
Per chi ha delle difficoltà a riconoscere in tutta la sua evidenza questo fenomeno, esiste pur sempre la relativa letteratura specialistica. Scoprirà così che il coraggioso pompiere è in realtà un piromane represso; che l’eroico soldato sfoga il suo inconscio impulso suicida, il suo istinto di morte; che il poliziotto si occupa dei delitti degli altri per non diventare egli stesso un criminale; che il famoso detective ha un malcelato atteggiamento paranoide; che ogni chirurgo è un sadico camuffato; che il ginecologo è un voyeur; che lo psichiatra vuol far la parte di Dio. È così semplice smascherare il marciume del mondo!
Ma anche la persona soccorrevole che non si preoccupa di scoprire i “veri” moventi del suo comportamento può fare dell’aiuto a qualcuno una specie di inferno, incredibile per i profani. Immaginiamoci soltanto un rapporto a due fondato principalmente sull’aiuto che uno dei partner da all’altro. È nella natura di un tale rapporto che esso conduca a due soli possibili risultati, entrambi fatali: o l’aiuto dato rimane senza effetto, oppure si dimostra efficace (anche qui una terza possibilità non esiste). Nel primo caso anche il più perseverante alla fine ne ha abbastanza e, profondamente deluso e amareggiato, si sottrae alla relazione. Se invece il suo aiuto risulta efficace, proprio per questo a un certo punto il partner non avrà più bisogno di un tale rapporto ed esso si spezzerà: il suo scopo e il suo significato, infatti, si saranno con ciò esauriti.
Come esempi letterari si possono scegliere i molti romanzi e libretti d’opera, soprattutto ottocenteschi, nei quali un giovane gentiluomo ha scelto come scopo della sua vita la salvezza e la purificazione delle perverse prostitute (in realtà invece innocenti e degne d’amore). Esempi concreti ci sono forniti dalle donne, quasi sempre intelligenti, responsabili e disinteressate, con la loro fatale tendenza a convertire bevitori, giocatori o criminali in modelli di virtù, e fino all’ultimo impegnate a reagire con amore e soccorrevolezza costanti ai comportamenti sempre uguali degli uomini. Riguardo al loro potenziale di infelicità, questi rapporti sono quasi perfetti, perché i partner si completano reciprocamente e si adattano uno all’altro in un modo che sembra poco probabile in un qualsiasi altro rapporto (in questo sbagliava Rabbi Jochanan quando diceva: “Riuscire a mettere insieme una coppia armoniosa è più difficile del miracolo di Mosè nel Mar Rosso”). Per potersi sacrificare, questo tipo di donna ha bisogno di uomini problematici e deboli; nella vita di un uomo relativamente indipendente, il suo aiuto e quindi la sua presenza non trovano lo spazio sufficiente e d’altronde non sono neppure necessari. Egli, d’altra parte, ha bisogno di un’impavida soccorritrice per poter sopportare ulteriori naufragi.
Una partner che si attenga al principio che una mano lava l’altra potrebbe perciò ben presto rinunciare a questo rapporto. Ecco quindi la ricetta: si cerchi un partner che con il suo esser-così permetta e ratifichi il proprio voler-essere-così. Ma anche qui ci si guardi dall’arrivare alla meta.
Nella teoria della comunicazione questo modello di rapporto si chiama collusione.Con questo si intende un sottile accomodamento, un quid pro quo, un’intesa a livello relazionale (talvolta del tutto inconscia), con cui ci si fa confermare e ratificare dall’altro l’immagine che si ha di se stessi. Il profano potrebbe giustamente chiedersi per quale motivo si abbia in questo caso bisogno di un partner. La risposta è semplice: immaginatevi una madre senza figlio, un medico senza ammalati, un capo di stato senza stato. Sarebbero per così dire soltanto ombre, uomini provvisori. Solo attraverso quel partner che svolge nei nostri confronti un tale ruolo, noi siamo “veramente”; senza di lui siamo abbandonati ai nostri sogni, e i sogni, come si sa, sono bolle di sapone. Ma perché qualcuno dovrebbe essere disposto a svolgere per noi questa funzione? Per due motivi:
1. Il ruolo che egli deve svolgere per farmi essere “veramente” è il ruolo che egli stesso vuole svolgere per esistere a sua volta “veramente”. La prima impressione è che si tratti di un adattamento perfetto, non è vero? È da notare però che per continuare a essere perfetto non deve assolutamente cambiare. Ma scriveva già Ovidio nelle sue Metamorfosi: niente nel mondo è stabile, al flusso segue sempre ilriflusso. Riferito alla collusione, ciò significa che i bambini hanno la fatale tendenza a crescere e i pazienti a guarire, e che al felice entusiasmo per un “armonico” rapporto segue ben presto il riflusso del disinganno, e con esso il disperato tentativo di rendere impossibile all’altro ogni allontanamento. Dice ancora Sartre :
Mentre io tento di liberarmi dall’influenza d’altri, l’altro tenta di liberarsi dalla mia; mentre io cerco di soggiogare l’altro, l’altro tenta di soggiogarmi. Non si tratta affatto qui di relazioni unilaterali con un oggetto-in-sé, ma di rapporti reciproci e mobili.
Poiché ogni collusione presuppone necessariamente che l’altro debba essere, di per sé, esattamente come io lo voglio, finisce immancabilmente nell’assurdità del “Sii spontaneo!”.
2. Questa fatalità diviene ancora più evidente se consideriamo l’altro motivo che può indurre un partner a svolgere quel ruolo così necessario per il nostro sentirci ” reali ” : un risarcimento adeguato alla fatica di tale acrobazia. Viene subito in mente l’esempio della prostituzione. Il cliente desidera naturalmente che la donna gli si dia non soltanto per i soldi, ma anche perché lei lo vuole “veramente” (come si vede, ritorna sempre questo prodigioso concetto: “veramente”). La cortigiana di talento, a quanto sembra, riesce benissimo a suscitare e a mantenere questa illusione. Praticanti dotate di meno abilità falliscono proprio su questo punto, portando il cliente al disinganno.
Questo “dopo sbornia” non si limita affatto alla prostituzione in senso stretto; esso ha la fatale tendenza a manifestarsi in tutti quei rapporti in cui entrano in gioco elementi collusivi. Il sadico, dice la famosa battuta, è una persona che è gentile con un masochista. Il problema di molte relazioni omosessuali è che si aspira ad avere un rapporto con un uomo “vero”, quando purtroppo bisogna constatare che l’altro, a sua volta, è “soltanto” un omosessuale.
Nella sua pièce teatrale Il balcone, Jean Genet ci offre un quadro magistrale di questo mondo collusivo. Madame Irma gestisce un su-perbordello in cui i clienti (ovviamente a pagamento) possono noleggiare l’incarnazione dei propri ruoli complementari. In una scena, Madame Irma enumera i suoi clienti: due re di Francia, con cerimonie di incoronazione e diversi rituali; un ammiraglio sul ponte del suo cacciatorpediniere che sta affondando; un vescovo in atteggiamento di continua adorazione; un giudice che giudica; un generale in sella; un San Sebastiano; Cristo in persona (e tutto questo mentre in città infuria la rivoluzione e i quartieri nord sono già caduti). Nonostante le doti organizzative di Madame Irma, capitano continuamente degli intoppi che disingannano i clienti. Anche con tutta la buona volontà, non è possibile celare il fatto che si tratta di una recita a pagamento; d’altra parte, spesso i partner noleggiati non possono o non vogliono svolgere interamente il loro ruolo, cioè in maniera tale da soddisfare il cliente nel suo desiderio di vivere “veramente”. Dice il “giudice”, per esempio, alla “ladra”:
La mia entità di giudice promana dalla tua entità di ladra. Basterebbe che tu non ti prestassi… Ma non ti salti in mente!… Che tu non ti prestassi ad essere chi sei — quello che sei, quindi chi sei — perché io cessassi di esistere… e sparissi, evaporato. Disintegrato. Volatilizzato. Negato. Ma allora? Ma allora? Mica ti rifiuterai, vero? Mica ti rifiuterai di essere una ladra, sarebbe malvagio. Sarebbe delittuoso. Mi impediresti di esistere! (Implorante) Dimmi, gioiuzza, amor mio, mica ti rifiuterai?
ladra (civettuola): E chissà?
giudice: Cosa? Che hai detto? Me lo negheresti? Dimmelo, dove. E dimmi ancora quello che hai rubato.
ladra (asciutta e alzandosi): No.
giudice: Me lo dici dove? Non essere crudele…
ladra: Non mi date del tu, se non vi dispiace.
giudice: Signorina… Signora. Ve ne prego. (Si getta in ginocchio.) Vedete, sto supplicandovi. Non mi lascerete in una posa simile, aspettando di essere giudice. Se non ci fosse il giudice, poveri noi, ma se non ci fossero i ladri?
La pièce termina con Madame Irma che si rivolge al pubblico, alla fine della sua dura giornata, o meglio, della sua dura notte di lavoro: “Bisogna tornare a casa, dove tutto, non dubitate, sarà ancora più falso che qui.” E mentre sta spegnendo l’ultima luce: “Dovete andarvene, passerete a destra.” (Da dietro il palcoscenico giunge il crepitio di una mitragliatrice.)
Questi pazzi stranieri
Come la maggior parte delle verità amare, le parole conclusive di Madame Irma non fruttano molta simpatia. Non ci sentiamo ricordare volentieri la falsità del nostro mondo. Il nostro mondo è il vero mondo; insensati, falsi, illusori, stravaganti sono i mondi degli altri. E da ciò possiamo trarne profitto per il nostro argomento.
Niente paura, non è nelle mie intenzioni (e neppure rientra nelle mie competenze) prendere parte con sagge parole al dibattito sul come e perché in un paese si giunga a delle tensioni tra i cittadini e le minoranze di stranieri. Il problema è universale: messicani, vietnamiti o haitiani negli Stati Uniti, nordafricani in Francia, indiani in Africa, italiani in Svizzera, turchi nella Repubblica Federale Tedesca, per non parlare di palestinesi, armeni, drusi e sciiti — la lista non finirebbe mai.
Bastano semplicemente dei contatti individuali o anche delle osservazioni dirette, sia nel proprio paese e sia all’estero, per giungere a una personale indignazione e a un rifiuto nei confronti dello straniero. Il rutto dopo il pasto valeva una volta come un complimento per il buon cibo; oggi non più, e la voce si è sparsa. Forse non tutti sanno che in Giappone mangiare rumorosamente e aspirare l’aria tra i denti in maniera che si senta ha ancor oggi il significato di un complimento. Lo sapete che in America centrale possono guardarvi con sospetto se indicate l’altezza di una persona con quel gesto così ovvio in Europa (la mano tesa orizzontale)? Laggiù, solol’altezza degli animali può essere indicata in questo modo.
Restiamo nell’ambito dell’America Latina. Anche se non appartenete all’area linguistica angloamericana, il latin lover quale magnifico esemplare di mascolinità vi è sicuramente noto. È là principalmente che egli imperversa. In fondo è una figura amabile e innocua, il cui ruolo si accorda perfettamente con il rigido ordine sociale che esiste tuttora in America Latina. Poiché lì la cosiddetta migliore società limita rigorosamente le scappatelle, il latin lover si può concedere un atteggiamento appassionato e languido, di fronte al focoso ed estremamente sensuale comportamento delle belle latinas, mai disposte però alla benché minima concessione. Non bisogna meravigliarsi dunque se i canti popolari latinoamericani (innanzi tutto i bellissimi e nostalgici Boleros) celebrano romanticamente da sempre le sofferenze dell’amore irraggiungibile, l’irrevocabile distacco sopraggiunto un istante prima della piena soddisfazione, oppure la commossa beatitudine dell’ultima noche (la prima e immancabilmente ultima notte). Dopo aver sentito un numero sufficiente di simili canzoni, lo straniero a poco a poco è portato a chiedersi se è tutto qui, e la risposta è sostanzialmente affermativa.
Ora, se il latin lover viene esportato negli Stati Uniti o in Scandinavia, si creeranno quasi inevitabilmente dei problemi nei rapporti con le donne. Egli corteggerà e assedierà come di consueto le bellezze locali, le quali però hanno tutt’altre regole di gioco, certamente molto più libere, e lo prenderanno sul serio. A questo però non è preparato, perché secondo le regole della sua arte avrebbero dovuto respingerlo oppure tenerlo a bada con la promessa della prima notte di nozze. Ci si può immaginare le deludenti complicazioni per le impazienti signore e per l’efficienza dellatin lover (basata sul mito dell’ultima noche). Ancora una volta vediamo quanto il viaggiare pieni di speranze sia meglio dell’arrivare.
Simili problemi angustiano il mondo maschile italiano, essendosi le donne italiane notevolmente emancipate negli ultimi decenni. Prima, l’italiano si sentiva spinto dalla sua stessa mascolinità a comportarsi in maniera passionale. C’era poco rischio, perché di solito veniva respinto efficacemente. Uno dei principi maschili fondamentali del flirt diceva: se io rimango da solo con una donna per più di cinque minuti senza metterle le mani addosso, crederà che io sia un omosessuale. Il problema è che oggi le donne sono notevolmente più disponibili, e, se dobbiamo credere alle relative statistiche psichiatriche, il numero dei pazienti affetti da impotenza è in forte aumento. Comportarsi abitualmente in modo virile e passionale è privo di pericoli fino a quando si può fare affidamento sul fatto che la partner assuma il “giusto” atteggiamento complementare e perciò respinga con materna benevolenza.
A noi europei, al contrario, può accadere facilmente negli Stati Uniti che si cada in quell’erronea conclusione che è diametralmente opposta all’errore del latin lover. In Europa non si può guardare a lungo negli occhi uno sconosciuto; nel caso si superassero tali ristretti limiti di tempo i risultati sarebbero molto diversi che negli Stati Uniti. Da noi, il più delle volte l’altro si insospettisce, distoglie lo sguardo e sembra diventare inavvicinabile. Invece negli Stati Uniti la persona osservata sorride (specialmente se è una donna), inducendo anche il più timido alla supposizione di esserle particolarmente simpatico — il cosiddetto amore a prima vista — e che perciò la situazione offra notevoli possibilità. In realtà la situazione non offre nulla, sono le regole del gioco a essere diverse.
A che scopo dunque questo minestrone di preziosità pseudo etnologiche? Non tanto per impressionarvi con la mia cosmopolitica erudizione, quanto perché con questa ricetta si possono rendere i propri viaggi all’estero (oppure la permanenza dello straniero in un paese) molto deludenti. Ancora una volta il principio è facile: si supponga semplicemente, malgrado tutte le prove contrarie, che il proprio comportamento sia in ogni caso naturale e normale. Ogni comportamento diverso, nella stessa situazione, diventa così insensato o per lo meno stupido.
La vita come gioco
In un aforisma dell’americano Alan Watts si afferma che la vita è un gioco la cui prima regola è: essa non è un gioco, è una cosa molto seria. E Laing pensava probabilmente allo stesso modo quando in Nodi scriveva: “State giocando un gioco. Giocate a non giocare alcun gioco. Se io vi dimostro che state giocando, infrango le regole e voi mi punite” .
Ci è capitato più volte, nel corso di questa trattazione, di affermare che uno dei presupposti fondamentali dell’infelicità consiste nel non far sapere alla mano destra quello che fa la sinistra. È in questo modo che si gioca con se stessi il gioco di Watts o di Laing.
Non si tratta di vane fantasie. Da molto tempo esiste un settore della matematica astratta, e precisamente la teoria del gioco, che si occupa di questi e analoghi problemi. Da questo campo vogliamo trarre la nostra ultima ispirazione. Come si può immaginare, il concetto di gioco non ha per i matematici alcun significato ludico, infantile. Si tratta invece per loro di uno spazio concettuale con delle regole molto precise, che stabiliscono la migliore condotta di gioco possibile. È ovvio che, a seconda della comprensione e della coerente applicazione delle regole, si possano aumentare al massimo le proprie probabilità di vincere.
È qui di fondamentale importanza, anche per il nostro argomento, la distinzione tra giochi a somma zero e giochi a somma diversa da zero. Esaminiamo prima la classe della somma zero. Di essa fanno parte tutti quegli innumerevoli giochi in cui la perdita di un giocatore significa la vincita dell’altro. Vincita e perdita, sommate assieme, ammontano perciò a zero. Ogni semplice scommessa si basa su questo principio (che ci siano giochi di questo tipo molto più complicati, qui non ci deve interessare).
I giochi a somma diversa da zero invece, come dice già il nome, sono quei giochi in cui vincita e perdita non si pareggiano, nel senso che la loro somma può risultare inferiore o superiore a zero. Detto altrimenti, in uno di questi giochi entrambi i giocatori (oppure tutti, se vi partecipano più di due giocatori) possono vincere operdere. Solo a prima vista ciò appare poco chiaro, ma con degli esempi possiamo capire meglio. Consideriamo uno sciopero: a perdere di solito sono entrambi i “giocatori”, cioè la direzione aziendale e i dipendenti. Infatti, sebbene dall’ulteriore andamento della controversia possa scaturire un vantaggio definitivo per l’una o per l’altra parte, non è affatto vero che la perdita e la vincita siano uguali a zero.
Immaginiamo infatti che i cali di produzione causati dallo sciopero tornino a profitto di un’azienda concorrente, in quanto adesso quest’ultima può vendere una quantità di prodotti notevolmente maggiore di prima. Abbiamo allora a che fare con un gioco a somma zero perché attraverso tale situazione potrebbe risultare che le perdite causate alla prima azienda dallo sciopero corrispondono proprio ai guadagni che quest’ultimo ha reso possibili alla seconda azienda. Ma è un prezzo pagato dalla dirigenza e dai lavoratori, ed entrambi sono quindi perdenti.
Trasferiamo adesso questa problematica dall’astratto campo della matematica o dalle scaramucce tra direzione aziendale e dipendenti, al livello dei rapporti umani. Un rapporto tra partner è un gioco a somma zero o a somma diversa da zero? Per poter rispondere dobbiamo prima chiederci se è vero che le “perdite” di un partner corrispondano alla “vincita” dell’altro.
E qui le opinioni sono divise. La vincita consistente, per esempio, nel proprio aver ragione e nell’aver dimostrato l’errore (la perdita) del partner si lascia interpretare come il risultato di un gioco a somma zero. E questo succede in molti rapporti, perché è sufficiente appunto che uno dei due veda la vita come un gioco a somma zero, che lascia aperta solo l’alternativa tra vincita e perdita. Tutto il resto viene da sé, anche se la filosofia dell’altro inizialmente non era orientata in tal senso.
Si giochi dunque a somma zero a livello relazionale e si stia pur certi che a livello oggettivo tutto andrà lentamente ma sicuramente in rovina. I giocatori a somma zero, persistendo accanitamente nell’idea della vincita e del reciproco superamento, facilmente non si avvedono dell’avversario decisivo, di quel terzo che solo in apparenza sorride: la vita, davanti alla quale entrambi sono perdenti.
Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero? Che si può vincere insieme non appena si smetta di essere ossessionati dall’idea di dover battere il partner per non esserne battuti? E che — cosa del tutto inconcepibile per lo scaltro giocatore a somma zero — si può perfino vivere in armonia con l’avversario decisivo, la vita?
Ma eccomi di nuovo a fare domande retoriche, alle quali già Nietzsche cercò di dare una risposta quando, in Al di là del bene e del male, affermò che la follia è rara negli individui, mentre nei gruppi, nelle nazioni e nelle epoche è la regola. Ma perché dunque noi comuni mortali dovremmo essere più saggi degli infinitamente più potenti giocatori a somma zero, dei politici, per esempio, dei patrioti, degli ideologi o perfino delle superpotenze? Tuttavia, proviamoci — molti nemici, molti onori, e anche se tutto dovesse crollare…
Epilogo
Il principio fondamentale secondo cui il gioco non è un gioco ma una cosa molto seria fa della vita un gioco senza fine, che solo la morte conclude. E qui — come se ciò non fosse già abbastanza paradossale — c’è una seconda assurdità: l’unica regola che può far terminare questo gioco molto serio non è di per sé una delle sue regole. Per essa ci sono diversi nomi, tutti aventi lo stesso significato: lealtà, fiducia, tolleranza.
Tal cantata, tal sonata. Ce l’hanno già detto quando eravamo ancora bambini. E con la testa certo lo sappiamo; ma solo pochi fortunati riescono a crederlo davvero fino in fondo. Se ci riuscissimo, sapremmo di essere i creatori non solo della nostra infelicità, ma anche nella stessa misura della nostra felicità.
Questa introduzione è cominciata con Dostoevskij j e con lui deve concludersi. NeiDemoni, uno dei personaggi più enigmatici che Dostoevskij] abbia mai creato dice: “Tutto è buono… Tutto. L’uomo è infelice perché non sa di essere felice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto! Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante…”
Così disperatamente semplice è la soluzione.
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