L’anello di una catena
Viviamo in un’epoca in cui tutto ciò che è antico, per il fatto stesso di esserlo, viene respinto, perché superato e quindi non più valido. Ha valore solo ciò che è nuovo, semplicemente perché tale. Anche se poi si è costretti ad ammettere che molte delle novità, prive di radicamento nel passato, invecchiano in un batter d’occhio e devono essere presto rimpiazzate da altre novità.
Gli uomini d’oggi pensano che il mondo sia nato con loro e muoia con loro; non hanno il senso della continuità; non hanno la consapevolezza di essere solo l’anello di una catena; non sentono il dovere di trasmettere alle generazioni successive ciò che hanno a loro volta ricevuto (forse perché molti di loro hanno ricevuto ben poco dai propri educatori).
Pensano che la storia sia una continua creazione dal nulla: “Io sono l’artefice della mia vita; non ho niente da imparare da coloro che mi hanno preceduto; la mia unica guida è il mio fuggevole sentimento; io voglio essere ciò che sento in questo momento”. Quale sia l’esito di questa mentalità è sotto gli occhi di tutti.
Probabilmente si tratta di un processo irreversibile, che deve giungere alla sua naturale conclusione.
È illusorio pensare di poter in qualche modo frenarlo; e a nulla serve ritardarlo; anzi conviene accelerarlo, perché si compia al più presto.
Bisogna però, nel frattempo, cominciare a pensare al “dopo”, al momento della ricostruzione dopo la devastazione. Ricordate Don Camillo? Che fare quando il fiume travolge gli argini e invade i campi? Bisogna salvare il seme. Dobbiamo, innanzi tutto, salvare la fede (Don Camillo e Don Chichí). Ma insieme – aggiungo io – dobbiamo anche iniziare a individuare quei pochi principi che dovranno servire da fondamento della ricostruzione.
Uno di questi dovrà essere, appunto, il “principio di antichità” (chiamiamolo così per comodità, tanto per intenderci; sappiamo bene che non tutto ciò che è passato è, di per sé, buono): dovremo cioè ristabilire i contatti col nostro passato, con le nostre radici, con la tradizione. Tornare al punto di pensare che io, come uomo, posso considerarmi realizzato solo quando sarò riuscito a trasmettere ai miei figli ciò che ho ricevuto dai miei padri.
Recuperare l’umile e fiera consapevolezza di essere soltanto l’anello di una catena, il cui unico compito è quello di mettere in comunicazione l’anello precedente con quello successivo. Se poi riesco a dare il mio piccolo contributo a questa catena, tanto meglio.
(P. Giovanni Scalese, 6 giugno 2016)
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